Robert Silverberg - Gilgamesh
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- Название:Gilgamesh
- Автор:
- Издательство:Fanucci
- Жанр:
- Год:1988
- Город:Roma
- ISBN:8-8347-0051-1
- Рейтинг книги:3 / 5. Голосов: 1
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In un altro posto, dove gli alberi erano fitti, bassi, tozzi, e avevano le foglie simili a piccoli punteruoli, vidi l’uccello-Imdugud appollaiato su un ramo con i robusti artigli rossi conficcati nel legno. Ad essere più precisi, fu l’uccello-Imdugud a vedermi, a riconoscermi e a dirmi: «Dove stai andando, figlio di Lugalbanda?»
«Sei tu, uccello-Imdugud?»
Allargò le ah, che somigliano a quelle di una grande aquila, e si lisciò col becco la testa, che è la testa di una leonessa. Gli occhi scintillavano come se fossero coperti di gemme. Lo riconobbi.
Dissi: «Sono terrorizzato dalla morte, Imdugud. Sto cercando un posto dove la morte non mi trovi.»
Rise. La sua risata somigliava alla risata di una leonessa, dolce e spaventosa.
«La morte ha trovato Enkidu. La morte ha trovato Dumuzi. La morte ha trovato l’Eroe Lugalbanda. Perché pensi che la morte non troverà Gilgamesh?»
«Sono per due terzi divino, e per un terzo umano.»
Rise di nuovo, una risata più rauca, gracchiante.
«Allora per due terzi vivrai, e per un terzo morirai!»
«Mi deridi, Imdugud. Perché sei così crudele?» Tesi le mani verso l’uccello. «Che male ti ho fatto, per farmi deridere? È perché ti ho scacciato dall’albero di huluppu? Quell’albero era di Inanna. Era mio dovere servire Inanna. Te l’ho chiesto con gentilezza, con giustizia. Aiutami, Imdugud.»
Le mie parole sembrarono toccargli l’anima. Con calma, disse: «Come posso aiutarti, figlio di Lugalbanda?»
«Dimmi dove posso andare perché la morte non mi trovi.»
«La morte trova tutti i mortali, figlio di Lugalbanda.»
«Tutti, senza eccezione.»
«Senza eccezione,» disse. Poi restò in silenzio per qualche momento, quindi disse: «In realtà, un’eccezione c’è stata. La conosci.»
Il cuore cominciò a battermi più veloce. Con ansia dissi: «Qualcuno che è esente dalla morte? Non riesco a ricordarmene. Dimmelo. Dimmelo!»
«Nella tua follia e nella tua disperazione, hai dimenticato l’eroe del Diluvio.»
«Ziusudra! È vero!»
«Egli vive in eterno nel paese di Dilmun. Lo hai dimenticato, Gilgamesh?»
Tremai di eccitazione. Era come una febbre improvvisa. Intravidi una speranza.
Con ansia gridai: «E se andassi da lui, Imdugud? Che cosa succederebbe? Dividerebbe il segreto della vita con me, se glielo chiedessi?»
Sentii di nuovo quel riso sarcastico.
«Se glielo chiedessi?» La sua voce adesso somigliava più a quella di un’enorme cornacchia che a quella di una leonessa. Agitò le grandi ali. «Chiediglielo!»
«Dimmi la strada, Imdugud.»
«Chiediglielo! Prova a chiederglielo!»
Era diventato difficile vederlo: l’aria era diventata densa e gli aghi scuri dell’albero sembravano chiudersi intorno all’uccello. E non riuscivo nemmeno più a sentirlo con chiarezza: le sue parole si perdevano nel battito delle ali e nel fragore della risata.
«Imdugud?», gridai.
«Chiediglielo! Chiediglielo!»
Si sentì uno schianto. Il ramo cadde all’improvviso dall’albero, come capita ai rami quando la stagione è stata molto secca. Atterrò quasi ai miei piedi. Balzai indietro appena in tempo: quando rialzai lo sguardo, non vidi nessuna traccia dell’uccello-Imdugud contro il cielo azzurro chiaro.
29
Ziusudra. Sì. Conoscevo la storia. Chi non l’aveva mai sentita?
Così me la cantava l’arpista Ur-kununna, quando ero un bambino nel palazzo di Lugalbanda:
«Molto, molto tempo fa, arrivò un giorno in cui gli Dei si stancarono del genere umano. Il clamore, il fragore che si alzavano dal Paese e arrivavano nel cielo li avevano annoiati. Fu Enlil, che era il più irritato, ad esclamare: “Come posso dormire, se fanno tanto rumore?” E mandò una carestia a distruggerci. Per sei anni non piovve. Grani di sale emersero dalla terra e coprirono i campi, e il raccolto fu distrutto. Le famiglie mangiavano le figlie femmine, una casa divorava l’altra. Ma il saggio e misericordioso Enki ebbe pietà di noi, e la siccità finì.
«Ma l’ira di Enlil si infiammò di nuovo, e ci mandò la peste. La misericordia di Enki ci arrecò di nuovo sollievo. Coloro che si erano ammalati guarirono, e nacquero nuovi bambini a coloro che avevano perso i propri. Di nuovo il mondo brulicò di gente, e il rumore salì fino al cielo, come il muggito di un toro selvaggio. E di nuovo Enlil si infuriò. “Questo clamore è intollerabile,” disse Enlil agli Dei riuniti in consiglio, e al loro cospetto giurò di distruggere il mondo con un enorme diluvio.
«Ma il signore dei diluvi è Enki il Saggio, che dimora nel Grande Abisso. L’invio del diluvio fu perciò affidato a Enki, e poiché Enki ama il genere umano, badò a che la distruzione non fosse totale. A quel tempo, nell’antica città di Shuruppak, c’era un Re chiamato Ziusudra, uomo di grande virtù e fede. Una notte Enki andò in sogno da questo Re, e gli sussurrò: «Lascia la tua casa! Costruisci una nave! Abbandona il regno e salvati la vita!» Disse a Ziusudra di costruire una nave larga e lunga, e di coprirla con un tetto resistente quanto le volte che coprono l’abisso dell’oceano. Poi doveva prendere a bordo della nave il seme di tutte le creature viventi, quando sarebbe arrivato il grande diluvio.
«Ziusudra disse al Dio: “Farò quanto ordini, mio Signore. Ma che cosa dovrò dire al popolo e agli anziani della città quando vedranno che mi preparo a partire?”
«Enki gli suggerì un’astuta risposta: “Di’ loro che sei venuto a sapere che Enlil ti odia e che non puoi più vivere a Shuruppak, né mettere piede nei territori dove governa Enlil. Per questo motivo ti andrai a rifugiare nel Grande Abisso, andrai a vivere con il tuo Signore Enki. Ma di’ loro che, quando te ne sarai andato, Enlil manderà piogge abbondanti sul popolo di Shuruppak: gli uccelli più succulenti, i pesci più belli, una pioggia di orzo. Di’ loro tutto ciò, Ziusudra.”
«All’alba il Re radunò tutta la servitù e diede ordine di costruire la nave. Tutti presero parte al lavoro, perfino i bambini, che portavano i cesti di pesce. Il quinto giorno Ziusudra fece costruire la chiglia e le murate. Le murate erano alte centoventi cubiti e le fiancate del ponte erano lunghe centoventi cubiti, la superficie misurava quanto un campo. Costruì sei ponti, e divise l’interno in nove parti con robuste paratie. Infilò i tappi laddove servivano, e mise accanto a loro una riserva di pertiche. Il solo calafataggio richiese un’intera misura d’olio. Ogni giorno uccideva giovenchi e pecore per gli operai, e dava loro vino rosso e vino bianco come se fosse stata acqua di fiume, in modo che ogni giorno banchettassero come il giorno dell’Anno Nuovo. Il settimo giorno la nave fu terminata.
«Il varo fu difficile: furono costretti a spostare la zavorra finché la nave non arrivò dove l’acqua era profonda. Poi il Re caricò nella nave tutto il suo oro e il suo argento, e fece salire a bordo tutta la sua servitù e tutti i suoi artigiani, e anche animali di ogni specie, presi a coppie, sia le bestie addomesticate dei pascoli sia le creature selvagge dei campi. L’ora del diluvio si stava avvicinando, Ziusudra lo sapeva.
«Il cielo si oscurò e il vento cominciò a soffiare. Ziusudra sali a bordo della nave e chiuse i portelli. All’alba una nuvola nera apparve all’orizzonte, cominciò a tuonare e a soffiare un forte vento. Gli Dei si scatenarono contro il mondo, e i fulmini lampeggiavano: erano le torce degli Dei, che infiammavano il mondo con i loro lampi. Le tempeste ruggivano e le piogge arrivarono violente. Il Paese fu distrutto come una pentola di coccio lanciata contro un muro.
«Tutto il giorno i venti della tempesta soffiarono da sud: più a lungo infuriavano, più terribili diventavano. Le acque dell’inondazione unirono le proprie forze e assalirono il Paese come un’armata conquistatrice. La luce del giorno scomparve, non si vedeva niente, le cime delle montagne furono sommerse. Gli Dei stessi si spaventarono del diluvio e si ritrassero, ascesero nel cielo più alto, quello del Padre del Cielo. Si acquattarono come cani, si accucciarono contro il parapetto esterno. Inanna, la Regina del Cielo, piangeva e gridava come una partoriente nel vedere il suo popolo precipitare nel mare. Gli Dei piangevano con lei. Umiliati e spaventati dalle forze che essi stessi avevano scatenato, sedevano curvi e tremanti, e piangevano.
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