Discesero le scale senza parlare. Chaney rallentò il passo, per adeguarsi all’andatura di lei, e scesero lentamente, cautamente, un gradino dopo l’altro. Kathryn Van Hise si appoggiava al corrimano, e si muoveva con il passo esitante dei vecchi.
Si fermarono davanti alla porta aperta della stanza delle operazioni. Chaney sollevò la lampada, per guardare bene il veicolo: il portello era aperto e lo scafo, in basso, era coperto di polvere; la nicchia di cemento pareva sommersa dalla polvere dei lunghi anni trascorsi.
Un mondo antico e un mondo nuovo. Polvere e sole quieto.
Le domandò, d’un tratto:
— Quanto ho riferito nel mio rapporto, Katrina? Ho parlato di lei? Della sua famiglia? Ho parlato di quella famiglia sui vecchi binari della ferrovia? Che cosa ho detto?
— Niente. — Non voleva guardarlo; teneva gli occhi bassi.
— Cosa?
— Lei non ha fatto rapporto. Non ha detto niente.
Gli parve di avvertire un tremito nella voce, quando parlò.
— Ma dovevo dire qualcosa. Gilbert Seabrooke chiederà qualcosa! Vorrà sapere!
— Brian… — Lei si interruppe, inghiottì più volte, e poi ricominciò. — Lei non ha fatto nessun rapporto, signor Chaney. Lei non è ritornato dal suo lancio. Abbiamo saputo che lei era perduto, per noi, quando il veicolo non è ritornato al sessantunesimo secondo; lei era completamente perduto, per noi.
Brian Chaney, lentamente, con studiata prudenza, poggiò a terra la lampada, e poi fece voltare Katrina, e le sollevò il viso. Voleva vedere quel viso, voleva capire per quale motivo gli stava mentendo. I suoi occhi erano umidi di lacrime trattenute, ma non c’era alcuna menzogna, in quegli occhi.
Rigidamente: — Perché no, Katrina?
— Noi non abbiamo energia, signor Chaney. Il veicolo è impotente, immobile.
Chaney girò il capo per fissare il TDV, e subito si girò verso la donna. Non si rese conto di stringerla troppo forte.
— I tecnici mi possono riportare indietro.
— No. Non possono fare niente per lei; l’hanno perduta quando gli strumenti hanno cessato di seguire il suo cori idolo temporale, quando il computer ha taciuto, quando l’energia è mancata, qui, e lei ha superato la data del guasto, spinto dall’energia di lancio. I tecnici l’hanno perduta; hanno perduto il veicolo. — Si liberò dalla stretta di Chaney, e il suo sguardo incerto si abbassò. — Lei non è ritornato al laboratorio, signor Chaney. Nessuno l’ha più vista dopo il lancio; nessuno l’ha più vista, fino a quando non è comparso qui, oggi.
Quasi un grido: — La smetta di chiamarmi signor Chaney!
— Io sono… sono terribilmente dispiaciuta. Lei era perduto, per noi, come il maggiore Moresby. Abbiamo pensato…
Voltò le spalle alla donna e deliberatamente entrò nella stanza delle operazioni. Brian Chaney salì sul serbatoio di poliacqua, e scavalcò il bordo e infilò una gamba nel portello aperto del TDV. Non si preoccupò di spogliarsi o di togliersi gli stivali pesanti. Penetrò nel portello, e lo chiuse sopra il suo capo, e cercò la luce verde ammiccante. Non c’era nessuna luce. Chaney si distese sulla figlia, e spinse con forza con i talloni il pedale, sul fondo. Nessuna luce gli rispose.
Conobbe il panico, in quel momento.
Combatté contro quel panico cieco, e aspettò che i nervi si calmassero, aspettò che una quiete innaturale scendesse sopra di lui. Gli ritornò il ricordo di quel primo collaudo: allora aveva pensato che il veicolo somigliava a una stretta tomba soffocante, e adesso continuava a pensarlo. Disteso sulla griglia metallica per la prima volta… e aspettando che accadesse qualcosa di spettacolare… aveva provato un forte dolore alle gambe indolenzite, e aveva allungato le gambe per alleviare il dolore. I suoi piedi avevano colpito il pedale, rispedendolo all’inizio del collaudo, prima che i tecnici fossero stati pronti; erano stati molto in collera con lui. E un’ora più tardi, nella stanza della conferenza, tutti avevano visto e sentito i risultati della sua azione: il veicolo scaraventato indietro per la spinta dei suoi piedi, il rumore che aveva colpito i timpani e le luci che si erano affievolite per un istante. I tecnici, sbalorditi, avevano lasciato di corsa la stanza, e Gilbert Seabrooke aveva proposto di sottoporre all’Indic un nuovo programma di studio. Il TDV aspirava l’energia dal presente, e non dal passato, dal suo passato.
Chaney allungò la mano per chiudere bene il portello. Era chiuso. La luce che avrebbe dovuto ammiccare, la luce verde, era spenta e restava spenta. Chaney appoggiò i piedi al pedale, e spinse, spinse con forza. La luce rossa rimase spenta. Spinse di nuovo, poi scalciò con violenza. Dopo un momento si girò a guardare, attraverso la bolla di plastica, la stanza. Era illuminata fievolmente dalla lampada posata sulla soglia.
Camminò lentamente lungo il corridoio, alla luce fioca della lampada, camminò rigidamente, come in sogno, in uno stato di choc venato di paura. Il rifiuto del veicolo di muoversi dietro le sue sollecitazioni lo aveva come stordito. Desiderò disperatamente di trovare Katrina, desiderò di trovarla in piedi con una parola o un gesto ai quali lui potesse appigliarsi per avere speranza, ma Katrina non si vedeva nel corridoio. Lo aveva lasciato mentre lui aveva lottato con il veicolo, forse per ritornare nella stanza di addestramento, forse per uscire, forse per ritirarsi nel rifugio che divideva con suo figlio e sua figlia. Chaney era solo, e lottava contro il panico. La porta del laboratorio tecnico era aperta, come la porta del deposito, ma lei non lo aspettava là. Chaney ascoltò, sperando di udire la sua voce o il suo respiro, ma non udì niente, e proseguì, dopo un attimo di sosta. Il corridoio polveroso finì, e una rampa di scale lo condusse in alto, verso la porta delle operazioni.
Pensò che il vecchio cartello cancellato sulla porta fosse un’amara presa in giro… una delle tante che aveva conosciuto da quando era partito per Israele, un secondo prima. Maledisse il giorno in cui aveva letto e tradotto quei rotoli… ma nello stesso tempo desiderò disperatamente di conoscere l’identità dello scriba che si era divertito e aveva divertito i suoi colleghi creando il documento dell ’Eschatos. Un solo nome sarebbe bastato: un Amos, o un Malachia, o un Ibico.
Allora avrebbe levato alto un bicchiere d’acqua attinto alla cisterna nabatea, e salutato il genio sconosciuto per la sua intelligenza e la sua saggezza, per la sua feroce ironia. Avrebbe gridato al cielo pulito di fresco:
— Ecco, maledetti i tuoi occhi, Ibico! Ecco, per i draghi morti da tanto tempo e per il recinto caduto e per il ghiaccio sui fiumi. Ecco, per la mia testa d’oro, il mio petto d’argento, le mie gambe di ferro e i miei piedi d’argilla. I miei piedi d’argilla, Ibico! — E avrebbe scagliato il bicchiere contro il TDV senza vita.
Chaney girò le chiavi nelle serrature, e spinse la porta, e uscì nella fredda aria notturna. L’oscurità lo sorprese; non si era reso conto di avere passato tante ore dolci e amare là dentro, con Katrina. Il parcheggio conteneva solo il carro e il fucile che lui aveva abbandonato I tigli eli Katrina non lo avevano aspettato, e Chaney si rese conto di provare un poco di dolore.
Si allontanò dall’edificio e poi si voltò a guardarlo: un massiccio tempio bianco di cemento, sotto i raggi della luna. Le legioni barbariche non erano riuscite ad abbatterlo, malgrado i danni prodotti in tutte le altre parti della base.
Il cielo fu la seconda sorpresa: l’aveva visto ili giorno e l’aveva trovato prodigioso, ma di notte era incredibilmente bello, di una bellezza sconvolgente. Le stelle erano luminose e fisse come gemme scintillanti e levigate, e ce n’erano cento e mille più di quante ne avesse mai viste prima; non aveva mai conosciuto un cielo simile, in tutta la sua vita. L’intero orizzonte orientale era illuminato dai raggi brillanti della luna sorgente.
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