— Tornate indietro!
Si aggrappò alla barriera, senza curarsi del filo spinato, e li seguì con lo sguardo, fino a quando non li vide sparire. L’impalcatura con il suo cartellone traballante e l’erba alta li nascosero, e il pianto del bambino fu soffocato. Chaney rimase là, protendendo le dita attraverso il reticolato.
— Vi prego! Tornate indietro!
L’angolo di nord-ovest del mondo rimase vuoto. Lui scese dal recinto, con le mani sanguinanti.
Chaney raccolse il fucile e si voltò, aprendosi la strada faticosamente tra le erbe e gli arbusti, verso la strada e l’agglomerato di edifici nel cuore della base. Non ebbe il coraggio di voltarsi a guardare. Non aveva mai conosciuto nessuno che fosse fuggito davanti a lui… neppure quei bam4 bini, quei piccoli mendicanti che erano rimasti sulle sabbie del Negev, accoccolati a guardarlo, mentre lui frugava nella sabbia alla ricerca della loro storia dimenticata. Erano sempre stati timidi e diffidenti, quei beduini, ma non erano fuggiti davanti a lui. Lui camminò senza fermarsi, non guardò la rimessa delle inutili automobili, non guardò il centro ricreativo con al centro quella fossa dei rifiuti che era stata una piscina, non guardò i resti delle caserme bruciate e gli anemoni che erano restati di guardia…, non volle guardare niente, perché non voleva più vedere nulla del mondo che era stato, né di quello che aveva scoperto quel giorno. Camminò in silenzio, assaporando il gusto della morte e della decomposizione che circondava ogni cosa.
Elwood Station era un mondo chiuso, un mondo circondato da una barriera che faceva paura, che si ergeva come un’isola di stolido isolamento tra i sopravvissuti di quella violenta guerra civile. C’erano dei sopravvissuti. Erano là fuori, oltre il recinto, ed erano fuggiti davanti a lui… che era rimasto dentro. Le loro paure, i loro terrori erano centrati sulla base: era là il demonio che conoscevano. Era lui il demonio che avevano intravisto per un istante.
Ma la base aveva un abitante… non un visitatore, non un saccheggiatore venuto dal mondo esterno, che si serviva delle provviste durante l’inverno, ma un abitante permanente. Un demone che abitava là, e che aveva riparato il recinto e appeso quegli orribili talismani per tenere lontano i sopravvissuti, un abitante cristiano che aveva scavato una fossa e vi aveva posto sopra una croce.
Chaney si fermò, al centro del parcheggio.
Davanti a lui: le pareti impenetrabili del laboratorio si levavano, come un grande tempio grigio, in un campo d’erba e di sterpi. Davanti a lui: un monticello ili argilla giallastra accanto a una cisterna nabatea si ergeva come un anacronistico pollice, con una tomba solitaria accanto. Davanti a lui: un carro a due ruote, fatto di legno e di ruote prese da macchine ben più perfezionate.
Da qualche parte, dietro di lui: un paio d’occhi che lo fissava.
Brian Chaney estrasse di tasca le chiavi, e aprì la porta delle operazioni. Due lampade erano posate sul primo gradino, ma non si udì suonare un campanello, in basso, quando la porta si aprì. Un fiotto d’aria stantia uscì dalla porta, e si perse nell’aria fresca e tersa del mattino. Il sole era alto… quasi allo zenit… ma la giornata era fredda, e non prometteva di diventare più calda. Chaney fu lieto di avere indossato il cappotto.
Sole quieto, cielo pulito, e freddo fuori stagione: avrebbe potuto riferire questo a Gilbert Seabrooke.
Spinse il carro contro la porta, per tenerla aperta, e poi scese a prendere il primo carico di razioni. Lasciò il fucile accanto al carro, dimenticato quasi del tutto. Portò scatole e scatole di razioni dal deposito al carro, fino a quando le braccia e le gambe non cominciarono a essere stanche per il movimento e per il troppo carico; ma aveva dimenticato le medicine e i fiammiferi, e così fece un altro viaggio. Incluse anche, ripensandoci, qualche attrezzo che gli sarebbe servito più tardi. Chaney si era sopravvalutato; il carro era così carico, dopo l’ultimo viaggio, che lui riuscì a muoverlo dalla porta con difficoltà, e così fu costretto a lasciare indietro alcune delle scatole più pesanti.
Lasciò il parcheggio, spingendo il carro davanti a sé.
Gli occorsero più di tre ore, e tutta la sua forza di volontà, per raggiungere per la seconda volta nella giornata l’angolo di nord-ovest del recinto. Il carro si muoveva facilmente, fino a quando si trattava di percorrere strade lastricate, ma quando fu costretto a lasciare la strada e a procedere tra le erbe e gli sterpi, lungo la traccia che lui stesso aveva lasciato, la fatica si fece quasi insostenibile. Il carro era solo di pochissimo più facile da tirare che da spingere. Chaney non ricordava di avere visto un machete nel deposito, ma desiderò di averne almeno una dozzina… e una dozzina di portatori che lavorassero davanti a lui, per aprire una strada in quella specie di giungla d’erba. Il carico era pesante; trasportarlo gli toglieva il respiro.
Quando finalmente raggiunse il recinto, si buttò a terra e ansimò pesantemente, cercando di riprendere fiato. Il sole cominciava a scendere verso l’orizzonte occidentale.
Attaccò il recinto servendosi di un piede di porco. Il lavoro pareva più facile nel punto in cui la barriera era stata rappezzata intorno ai resti del camion; non era così compatta, in quel punto, non era resistente all’attrezzo come nelle parti rimaste intatte, e Chaney si concentrò su quel punto. Strappò il filo spinato, e liberò la carcassa del camion, poi attaccò i bordi della barriera intatta, e piegò il filo spinato, aprendo un varco. Quando ebbe finito le mani gli sanguinavano nuovamente da una miriade di ferite e di graffi, ma era riuscito ad aprire un varco sufficiente a far passare il carro, accanto al camion. Il muro aveva un varco, ora.
Il carro pesante gli sfuggì, scendendo veloce lungo il pendio.
Corse disperatamente, cercando di fermare la corsa del carro lungo il pendio, gridando per la collera e l’esasperazione, ma il carro ignorò le sue imprecazioni e continuò a scendere precipitosamente attraverso l’erba alta, che adesso non era più un ostacolo per il maledetto veicolo, finché non raggiunse la pianura sottostante e si ribaltò, versando il carico tra gli arbusti. Chaney gridò tutta la sua collera: il termine aramaico che piaceva tanto ad Arthur Saltus, e poi un’altra frase riservata agli asini e ai gabellieri. Il carro… come gli asini, ma diversamente dai gabellieri… non rispose.
Faticosamente, raddrizzò il carro, raccolse le scatole che erano cadute, e spinse il pesante carico attraverso il campo, verso la strada ferrata.
Il bastone caduto era un buon segno indicatore.
Il piccolo tesoro venne lasciato là, sulle rotaie, pronto a essere trovato dalla famiglia spaventata dei fuggiaschi, o da qualsiasi altro viaggiatore che fosse passato da quella parte. Mise i fiammiferi e le medicine sopra gli scatoloni, e poi li coprì con il soprabito per proteggerli dalle intemperie. Chaney rimase solo per pochi istanti a guardare in lontananza, cercando qualche segno di vita… era certo che le sue grida e le sue imprecazioni avrebbero spaventato chiunque si fosse trovato nei paraggi, inducendolo a fuggire a gambe levate. Come prima, era solo in un mondo vuoto. Un uccello cantava, nascosto tra le foglie di un cespuglio. Per il momento, doveva accontentarsi di questo.
Nelle ore del tardo pomeriggio, quando il tepore del sole cominciò a diminuire, Chaney spinse il carro vuoto su per la collinetta, e attraverso la breccia nella barriera, per l’ultima volta, fermandosi solo a riprendere il piede di porco. Non osò voltarsi a guardare. Temeva quello che avrebbe potuto scoprire… o non scoprire. Voltandosi improvvisamente a guardare, se avesse visto qualcuno già vicino alle scatole, avrebbe rovinato quello che aveva fatto… sapeva che si sarebbe comportato come prima, e avrebbe fatto fuggire il nuovo arrivato. Ma se si fosse voltato e avesse visto di nuovo lo stesso mondo abbandonato e deserto, la sua depressione sarebbe aumentata. Non voleva guardare. Non doveva guardare.
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