Hal Clement - Luce di stelle

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Chi non ricorda il pianeta Mesklin e i suoi straordinari abitanti, costretti a vivere in condizioni di gravità proibitive per gli esseri umani? Gli eroi meskliniti di Hal Clement tornano in questo romanzo, in sé pefettamente autonomo, che è di fatto il secondo capitolo della saga iniziata con
(
), tenuto a battesimo in Italia proprio sulle pagine di URANIA. Ancora una volta la pazienza, il coraggio e le straordinarie caratteristiche fisiche dei meskliniti permetteranno loro di avere ragione di un mondo in cui la forza di gravità è così schiacciante da rappresentare da sola il più terribile e immediato dei pericoli. Senza contare le numerose incognite di questa nuova e inedita missione nello spazio, scritta da un maestro della tecnologica…

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— Capitano, spero che questo non la spinga ad abbandonare il lavoro a metà. Immagino che per portare fuori le colture sia necessario tutto l’equipaggio, ma credo che valga la pena di tentare di liberare la Kwembly. Non può abbandonare così il ricognitore e Beetchermarlf è ancora prigioniero là sotto col suo amico: moriranno se i lavori si fermano. Non credo ci vogliano molti marinai per far funzionare il dispositivo a resistenza.

Dondragmer ormai si era fatta un’opinione chiara della personalità di Benj Hoffman, anche se alcuni comportamenti sembravano fondamentalmente oltre la sua portata. Rispose quindi con tutto il tatto possibile.

— Fino a quando esisterà qualche possibilità di salvarla non ho certamente intenzione di abbandonare la Kwembly — disse — ma la presenza di acqua a pochi chilometri da noi mi obbliga a pensare che il rischio di una seconda inondazione sia molto elevato. L’equipaggio, come gruppo, viene per primo. La barra metallica che abbiamo tagliato verrà posta a contatto del ghiaccio tra pochi minuti. Una volta attivata, rimarranno ad occuparsene solo Borndender e un altro marinaio. Tutti gli altri, a eccezione naturalmente di Stakendee e il suo gruppo, inizieranno a trasportare le colture e le lampade fuori dalla vallata. Non ho alcuna intenzione di abbandonare i miei timonieri, ma se mi dovessero riferire con certezza che l’acqua sta salendo non esiterei a ordinare l’evacuazione abbandonandoli al loro destino. L’idea può apparire sgradevole e me ne rendo conto, ma sono certo che capirà che non c’è altro da fare.

Il capitano non aggiunse altro domandandosi senza troppa enfasi cosa avrebbe risposto Benj. Ma non poteva stare ad aspettare: aveva troppo da fare.

Si spostò verso la vetrata per osservare il pesante pezzo metallico, destinato a diventare un elemento riscaldatore se l’idea degli umani funzionava, che veniva abbassato lungo il lato a tribordo dello scafo. Delle funi lo avvolgevano per intero passando per dei morsetti disposti lungo tutta la barra e mantenute sempre tese dai marinai sul ghiaccio, che la- i sciavano correre le funi centimetro dopo centimetro sotto l’occhio attento di Praffen. Appollaiato sulla paratia dell’hangar degli elicotteri con il corpo sollevato in tutta la sua altezza, Praffen osservava le attività sotto di lui emanando a gesti una serie di ordini quando la sezione di tribordo della barra metallica venne calata lentamente per lasciar posto qualche istante dopo alla sezione opposta. Dondragmer fremette leggermente quando il marinaio sembrò sul punto di perdere l’equilibrio tradito dal leggero dondolio della barra metallica, ma Praffen la lasciò scorrere mantenendo un buon numero di zampe sul cornicione della paratia mobile e almeno tre paia di chele saldamente attaccate alle maniglie. Una volta passata la sbarra i rischi erano terminati, e lui fece cenno ai marinai che tenevano le corde di accelerare un poco la discesa. Furono necessari meno di cinque minuti per posare la barra metallica sul ghiaccio. Approfittando di quell’ultima parte dell’operazione Dondragmer si infilò la tuta spaziale e uscì dalla Kwembly dove emanò un certo numero di ordini con gran dispendio di fischi e suoni. Alla fine tutti si avvicinarono al portello principale per iniziare il trasferimento delle vasche di biorigenerazione, mentre il capitano rientrò all’interno per riprendere il contatto radio con Benj e Stakendee.

Mentre la barra veniva calata Benj, che seguì tutte le fasi del lavoro grazie alla nuova posizione della telecamera sul ponte, non proferì parola. Quello che vedeva non necessitava di commenti. Il ragazzo però non poté evitare di fremere quando vide l’equipaggio al gran completo raggiungere il portello principale. Dondragmer aveva ragione, ma non gli piaceva comunque vedere che le operazioni destinate a salvare la vita di Beetchermarlf venivano sospese così crudamente, lasciando tutto in mano a due soli mescliniti. Le loro difficoltà con il generatore servirono comunque a distrarlo e contribuirono a farlo sentire utile.

Benj non sapeva quale dei due fosse Borndender. Tuttavia quello che fecero lo interessò più delle loro identità, soprattutto quando armeggiarono malamente con i contatti.

La barra metallica era abbastanza rigida da sopportare bene gli urti e anche posata sul ghiaccio mantenne discretamente la sua forma originale. Ricordava una stretta e gigantesca forcina per capelli, con una protuberanza ricurva al centro per evitare la grande paratia mobile dell’hangar, le cui estremità si trovavano a sessanta, settanta centimetri una dall’altra. I componenti originalmente verticali della sua curvatura, prima forzati in posizione dalla forma stessa dello scafo, tendevano però ad appiattirsi per via dell’attrazione gravitazionale. I morsetti sarebbero rimasti: si trovavano disposti verso l’alto e quindi rimuoverli era inutile: il contatto con il ghiaccio era ottimo lungo tutta la resistenza.

I mescliniti trascorsero alcuni minuti tentando di raddrizzare la barra. Benj pensò che agissero così per liberare la porzione maggiore di scafo nel minor tempo possibile. Finalmente qualcuno capì che le due estremità dovevano trovarsi vicine comunque per poter entrare nello stesso generatore; quel lavoro venne abbandonato e i due si affrettarono a portare a poppa il generatore. Uno di essi si abbassò per esaminare le prese e il collegamento realizzabile con la barra, mentre l’altro rimase immobile nelle immediate vicinanze.

Benj non riuscì a vedere bene il generatore, dato che sullo schermo appariva molto piccolo, ma conosceva quel tipo di apparato. Era un normale convertitore standard, leggermente modificato a beneficio dei mescliniti. Comprendeva numerose prese di corrente che traevano energia modificando gli impulsi del campo magnetico che consentiva il moto meccanico. La corrente elettrica continua necessaria al funzionamento della resistenza poteva venir tratta da una qualunque di quelle prese. Il generatore era inoltre fornito di piastre di contatto a cui poteva venir data corrente, di connettori a spina per circuiti e di semplici prese unipolari che si trovavano alle estremità opposte dell’involucro. Le piastre sarebbero state le più facili da impiegare, ma Benj apprese poi che i mescliniti rifiutavano di usarle perché le ritenevano troppo pericolose. Finalmente i due decisero di usare le prese. Questo significava che un’estremità della gigantesca forcina doveva venir connessa a una presa e l’altra a una presa diversa sul lato opposto. Borndender sapeva che le estremità erano troppo grosse per entrare nel foro della presa e che sarebbe stato necessario assottigliarle sensibilmente, e quindi aveva pensato di portare con sé tutta l’attrezzatura necessaria. Questo aspetto del lavoro non presentò particolari problemi. Piegare le estremità una verso l’altra fu però molto più difficile. Mentre ancora lavorava su questo problema, il resto dell’equipaggio emerse dal portello principale con il suo carico di vasche per colture idroponiche, pompe, lampade e generatori di energia dirigendosi subito verso il lato nord della valle. Borndender li ignorò, rivolgendo loro solo una breve occhiata per domandarsi se qualcuno poteva abbandonare il suo lavoro per venire ad aiutarlo. Piegare le estremità della barra una verso l’altra a novanta gradi non comportava solo una certa forza fisica. La barra era semicircolare, con un diametro inferiore al centimetro. Sullo schermo pareva un grosso cavo metallico, anche se da vicino il suo spessore appariva evidente. La lega rimaneva sufficientemente compatta anche a centosettanta gradi Kelvin e quindi non sussistevano rischi di rottura. La forza dei mescliniti era certamente sufficiente allo scopo. Quello che mancava ai due scienziati e che rendeva l’operazione un’avventura era la trazione. Il ghiaccio sotto le loro zampe, composto di acqua con una certa percentuale di ammoniaca neppure troppo ghiacciata, risultava estremamente scivoloso. Le zampe dei mescliniti avevano un diametro tanto ridotto da penetrare nel terreno a ogni passo e questo, combinato con la loro struttura appiattita e molteplicità di punti di appoggio, impediva loro di scivolare sulla superficie gelata che circondava la Kwembly. In quel momento però Borndender e il suo assistente cercavano di applicare una potente spinta verso l’interno sulle estremità della barra e il loro peso limitato non bastava per piantare le zampe saldamente nel ghiaccio. Il metallo rifiutò di piegarsi e i lunghi corpi affusolati vennero proiettati lontano con la terza legge della gravità di Newton in completo controllo della situazione. Quella vista fu tanto comica da far scoppiare Benj in una risata nonostante le sue preoccupazioni, risata condivisa da Seumas McDevitt che era appena sceso dal laboratorio.

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