— Mi dispiace. — Le fece un sorriso di sbieco. — Più invecchio più guardo dentro al passato.
— Stavi pensando a Oderan?
— Stavo pensando a molte cose. — Dalacott sorseggiò il vino e andò con sua nuora a scambiare le solite parole con gli altri invitati. Notò che pochissimi di loro avevano una formazione militare, probabilmente un’indicazione dei reali sentimenti di Conna per l’organizzazione che le aveva preso il marito e che stava ora puntando gli occhi sul suo unico figlio. Lo sforzo della conversazione improvvisata con puri e semplici estranei era pesante per lui, e fu quasi con sollievo che accolse l’invito ad andare a tavola. Era suo dovere, adesso, tenere un breve discorso formale sulla maggiore età di suo nipote; poi sarebbe stato libero di confondersi in mezzo agli altri meglio che poteva. Aggirò il tavolo diretto verso la sedia dall’alto schienale addobbata con fiori di menta blu in onore di Hallie, e si accorse che non vedeva il ragazzo da un po’.
— Dov’è il nostro eroe? — disse ad alta voce un uomo.— Fate entrare l’eroe!
— Dev’essere andato in camera sua — disse Conna. — Vado a chiamarlo.
Con un sorriso di scusa si allontanò. Passò forse un minuto prima che ricomparisse sulla porta, con il viso lavato di ogni espressione, come congelato. Fece un segno a Dalacott e uscì di nuovo senza parlare. Lui la seguì, dicendosi che la sensazione di ghiaccio nel suo stomaco non significava niente, e camminò lungo il corridoio verso la camera di Hallie. Il ragazzo giaceva supino nel letto stretto. Il suo viso era bollente di febbre e brillante di sudore, e i suoi arti stavano facendo piccoli movimenti scoordinati.
“Non può essere”, pensò Dalacott atterrito mentre si avvicinava al letto. Guardò Hallie, vide il terrore nei suoi occhi, e seppe immediatamente che il tremito delle sue braccia e delle sue gambe erano inutili tentativi di muoversi normalmente. Paralisi e febbre!
“Non lo permetterò!”, gridò Dalacott dentro di sé mentre cadeva in ginocchio. “Non è permesso!”.
Mise la mano sul corpo magro di Hallie proprio sotto la cassa toracica: immediatamente trovò il gonfiore della milza, un indizio, e un gemito di vera e propria angoscia gli sfuggì dalle labbra.
— Hai promesso che avresti badato a lui — disse Conna con voce priva di vita. — È solo un bambino! Dalacott si alzò e la strinse per le spalle. — C’è un dottore qui?
— A cosa serve?
— So cosa pensi, Conna, ma Hallie non è mai stato a meno di venti passi da un globo e non c’era neanche un fil di vento. Ascoltando la sua stessa voce, la voce di uno sconosciuto, Dalacott cercava di convincersi sulla scorta dei dati di fatto. — Inoltre, ci vogliono due giorni perché la pterthacosi si sviluppi. Non può assolutamente accadere in questo modo. Adesso, c’è un dottore?
— Visigann — sussurrò lei, gli occhi traboccanti di lacrime che gli scrutavano il volto in cerca di speranza. — Lo farò venire. — Si voltò e corse fuori.
Starai benissimo, Hallie — disse Dalacott mentre si inginocchiava di nuovo vicino al nipote. Usò l’orlo di un copriletto per asciugare il sudore dal viso del ragazzo e fu atterrito nello scoprire che poteva davvero sentire il calore emanato dalla sua pelle madida. Hallie lo fissò in silenzio, con le labbra che tremarono quando cercò di sorridere. Dalacott notò che la bacchetta da ptertha Balliniana era posata sul letto. La prese e gliela mise in mano chiudendo le dita senza forza del ragazzo intorno al legno levigato, poi lo baciò sulla fronte. Lo baciò a lungo, come cercando di travasare la febbre che consumava il nipote nel suo proprio corpo, e solo lentamente si rese conto di due fatti strani: che Conna ci stava mettendo troppo a tornare con il dottore, e che una donna stava gridando da un’altra parte della casa.
— Torno subito, soldato — disse. Si alzò in piedi, come ipnotizzato, ripercorse la strada verso la sala da pranzo e vide che gli ospiti erano riuniti intorno a un uomo che giaceva sul pavimento.
L’uomo era Gehate, e dal suo colorito acceso e dal debole sussultare delle mani era evidente che era in uno stato avanzato di pterthacosi.
Mentre stava aspettando che venissero tolti gli ormeggi all’aeronave, Dalacott fece scivolare una mano in tasca e tastò il curioso oggetto senza nome che aveva trovato decenni prima sulle rive del Bes-Undar. Il suo pollice si muoveva in una traiettoria circolare sulla superficie lucente del ciottolo, levigato da anni di frizioni come quella, e lui tentava di farsi una ragione dell’enormità di quello che era successo nei nove giorni passati. Le semplici statistiche dicevano poco dell’angoscia che stava inaridendo il suo spirito.
Hallie era morto prima della fine della piccola notte del suo compleanno. Gehate e Ondobirtre erano stati sopraffatti dalla nuova terrificante forma di pterthacosi alla fine della giornata, e la mattina seguente aveva trovato morta anche Conna, per la stessa causa, nella sua stanza. Quella era stata la prima prova che la malattia era contagiosa, e le implicazioni stavano ancora cercando un ordine nella sua testa quando gli era arrivata la notizia della sorte toccata agli altri ospiti della festa.
Della quarantina di uomini, donne e bambini invitati alla villa, non meno di trentadue, e tutti i bambini, erano stati spazzati via la notte stessa. E ancora il flusso della morte non aveva esaurito il suo mortale potere. Il numero degli abitanti del villaggio di Klinterden e del distretto circostante era sceso da circa trecento ad appena sessanta nel giro di tre giorni. A quel punto l’invisibile assassino aveva apparentemente perso la sua virulenza, ed erano cominciati i funerali.
La navicella dell’aeronave traballò e dondolò un poco quando fu libera dagli ormeggi. Dalacott si avvicinò a un oblò e, sapendo che sarebbe stata l’ultima volta, guardò il panorama familiare di abitazioni dai tetti rossi, di frutteti, di campi striati di grano. Il suo placido aspetto mascherava i profondi cambiamenti di quei nove giorni, proprio come il suo inalterato aspetto fisico nascondeva il fatto che in nove giorni era diventato vecchio.
Quella sensazione, una cupa apatia, sfiducia in ogni speranza, era nuova per lui, ma non aveva nessuna difficoltà ad accettarla perché, per la prima volta in vita sua, poteva vedere un motivo per invidiare chi era morto.
Parte seconda
Il volo sperimentale
La Stazione di Ricerca per gli Armamenti era alla periferia sud-occidentale di Ro-Atabri, nel vecchio distretto industriale di Mardavan Quays. Era una zona depressa, attraversata da un rumoroso e inquinato corso d’acqua che sfociava nel Borann, sotto la città. Secoli di uso industriale avevano reso il suolo di Mardavan Quays sterile in molte zone, mentre in altre c’erano grandi distese di vegetazione del colore sbagliato, nutrita da sconosciute infiltrazioni e secrezioni, prodotti di antiche fogne e di mucchi di materiale per lo sterro. Fabbriche e magazzini erano sparpagliati in abbondanza nel paesaggio, collegati da percorsi evidenti come cicatrici, e mezzo nascosti in quella desolazione c’erano gruppi di misere abitazioni dalle cui finestre brillava assai raramente la luce.
La Stazione di Ricerca non dava l’idea di essere fuori posto nel circondario, con la sua accozzaglia di laboratori indefiniti, baracche e miseri uffici a un solo piano. Persino l’ufficio del capo della stazione era così sporco che i tipici disegni a diamante dei mattoni erano quasi indistinguibili.
Toller Maraquine trovava la stazione un posto profondamente deprimente per lavorare. Guardando indietro, al tempo della sua nomina, capiva di essere stato infantilmente ingenuo nell’immaginare uno stabilimento di ricerca militare. Si era figurato un prato accarezzato dalla brezza, con gli spadaccini occupati a provare nuovi tipi di lame, e gli arcieri che valutavano meticolosamente il rendimento di archi laminati e sperimentavano gli ultimi modelli di punte di frecce.
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