Ripartirono all’alba, un’alba limpida nella quale tutto il mondo sembrava essere stato rimesso a nuovo, lavato e meraviglioso, e una brezza fresca soffiava increspando le acque, da un cielo che pareva di porcellana dipinta, solcato qua e là da nuvolette bianche, e solo i rami strappati degli alberi, e le acque del fiume gonfie e limacciose e piene di rottami, ricordavano la furia selvaggia degli elementi, durante la lunga notte. A mezzo miglio dal punto in cui Kovacs aveva ormeggiato la barca, essi sorpassarono un rimorchiatore, con tutto il suo corteo di zattere, scagliato dalla forza della tempesta sulla riva sud, e più avanti, dopo un paio di miglia, c’era un mercantile, in secca sulla riva, dove era stato spinto dal vento.
Fu quello l’inizio di un lungo viaggio, e, per Len, l’inizio di un lungo e strano periodo che nella sua mente assunse la qualità di un sogno. Seguirono l’Ohio fino alla foce, e poi andarono a nord, avventurandosi nel Mississippi. Ora risalivano la corrente, arrancando lenti e sicuri lungo un canale che cambiava continuamente direzione tra le rive, e la barca pareva sempre sul punto di urtare i pali di segnalazione imbiancati a calce. Consumarono tutto il carbone, e continuarono con la legna presa a una stazione di rifornimento dell’Illinois, e avanzarono ancora fino alla foce del Missouri, e successivamente, per giorni e giorni, arrancarono per risalire le rapide del Big Muddy. Faceva sempre caldo. C’erano temporali, e pioggia, e verso la metà di agosto le notti cominciarono a farsi più fredde, portando con loro i primi, lontani aliti dell’autunno. A volte il vento soffiava così violentemente contro di loro da costringerli ad ormeggiare la barca e ad aspettare, osservando il traffico che seguiva la corrente svilupparsi davanti ai loro occhi, velocissimo e sicuro. A volte, dopo la pioggia, l’acqua si gonfiava e cominciava a scorrere così precipitosa da impedir loro qualsiasi misurazione, e poi scemava con altrettanta celerità, mostrando loro come si fosse spostato l’insidioso canale, e allora dovevano sudare per ore e ore, impiegando tutte le loro energie, per liberare la barca dai banchi di sabbia nei quali era rimasta intrappolata. L’acqua fangosa bloccava la macchina, e così dovevano fermarsi a pulirla, e molte volte dovevano fermarsi per procurarsi la legna. Ed Esaù si lamentava, borbottando:
«Questo è un modo di viaggiare molto disgraziato, per uomini di Bartorstown!»
«Esaù, ascolta,» disse Hostetter. «Se avessimo degli aeroplani, saremmo felici di usarli. Ma non abbiamo aeroplani, e questo modo di viaggiare è molto migliore di quello ancora più semplice, e cioé andare a piedi… come scoprirai presto.»
«Dobbiamo viaggiare ancora molto?» domandò Len.
Hostetter indicò un punto a occidente.
«Fino alle Montagne Rocciose.»
«Quanto tempo ci vorrà ancora?»
«Un mese. Forse qualcosa di più, se ci saranno degli ostacoli. Forse qualcosa di meno, se tutto andrà liscio.»
«E non volete dirci niente, su quello che troveremo?» domandò Esaù. «Com’è il posto, qual è il suo aspetto, come si vive?»
Ma Hostetter si limitò a fornire la stessa, breve risposta che aveva sempre dato a quelle domande:
«Lo scoprirete da soli, quando arriverete là.»
Non voleva parlare con loro di Bartorstown. Aveva fatto quella dichiarazione, affermando che Piper’s Run era un posto più piacevole, e poi non aveva più voluto dire altro. E neppure gli altri uomini si rivelavano più loquaci. Benché i giovani rivolgessero la domanda in ogni maniera possibile, cercando di deviare la conversazione in modo tanto sottile da strappare qualche indizio, gli uomini della barca parlavano di qualsiasi argomento, amabilmente, tranne che di Bartorstown. E Len capì che non ne parlavano, perché avevano paura di dire qualsiasi cosa.
«Avete paura che noi possiamo denunciare i vostri segreti,» disse un giorno a Hostetter. E poi, non per esprimere un rimprovero, ma per constatare un fatto, aggiunse, «Penso che ancora non vi fidiate di noi.»
«Non è una questione di fiducia. È, semplicemente, che nessun uomo di Bartorstown ne parla, e ormai dovresti sapere che è inutile fare delle domande.»
«Mi dispiace,» disse Len. «Vedete, abbiamo pensato a queste cose per tanto, tanto tempo. Penso che avremo molto da imparare.»
«Sì, molto,» disse Hostetter, pensieroso. «Non sarà facile, te lo assicuro. Vi sono molte cose che contrastano con qualsiasi credenza nella quale siete stati allevati, e per quanto voi vogliate ripudiare quello che avete appreso durante l’adolescenza, qualcosa rimane sempre.»
«Questo non mi preoccupa,» interloquì Esaù.
«No, infatti,» disse Hostetter. «Non ne dubito. Ma Len è diverso.»
«Come, diverso?» domandò Len, un po’ offeso.
«Esaù fa ogni cosa a orecchio, è superficiale,» disse Hostetter. «Tu invece ti preoccupi.» Più tardi, quando Esaù se ne fu andato in cabina, Hostetter posò la mano sulla spalla di Len, e sorrise, guardandolo fisso, e Len ricambiò il sorriso, e disse:
«Certe volte mi ricordate moltissimo papà.»
«Non mi dispiace,» disse Hostetter. «No, non mi dispiace affatto.»
Le caratteristiche del paesaggio cambiavano. La grande, ondulata terra boscosa e verdeggiante cominciò a spianarsi, e gli alberi a diradarsi, e il cielo diventò una cosa enorme, che si stendeva incredibile attraverso una pianura verde e grigia, che pareva continuare fin oltre l’orlo del mondo, attirando nelle sue immensità vuote lo sguardo fino a far dolere l’occhio, e costringendo chi guardava a cercare avidamente qualcosa, un albero o almeno un arbusto, che interrompesse quella distesa uniforme e senza confini e gli orizzonti vuoti. C’erano dei villaggi prosperi, sulle rive del fiume, e Hostetter disse che era un’eccellente terra coltivabile, malgrado il suo aspetto, ma Len odiava la piatta monotonia di quella visione, dopo le lussureggianti valli alle quali era abituato. Di notte, però, c’era qualcosa di grandioso, una sensazione di vastità ventose sfolgoranti di migliaia di stelle, tante quante Len non ne aveva mai viste prima.
«Ci vuole un po’ di tempo per abituarsi,» spiegò Hostetter. «Ma anche questa terra possiede una propria bellezza. Quasi tutti i posti sono belli, se tu non chiudi gli occhi e la mente e rifiuti di vedrli. È per questo che sono pentito di avere detto quelle cose, su Bartorstown.»
«Però eravate molto serio,» disse Len. «Sapete che cosa penso? Penso che vi dispiaccia di tornare.»
«Cambiare è sempre difficile, è sempre una fonte di dispiacere,» disse Hostetter. «Ti abitui a fare le cose in un certo modo, ed è sempre una lacerazione, una violenza, l’idea di cambiare.»
Len ebbe un pensiero che, stranamente, non si era mai insinuato nella sua mente prima di quel momento. Domandò:
«Voi avete famiglia, a Bartorstown?»
Hostetter scosse il capo.
«Sono sempre stato un vagabondo, non ho mai voluto dei legami.»
Entrambi, inconsciamente, si volsero a guardare indietro, a poppa, dove Esaù era seduto accanto ad Amity.
«Ed è così facile averne,» concluse Hostetter.
C’era qualcosa di possessivo nell’atteggiamento di Amity, nel modo in cui piegava la testa verso Esaù, e appoggiava la sua mano su quella di lui. Stava arrotondandosi, e la sua bocca aveva un’espressione petulante, e prendeva la sua maternità, sebbene ancora lontana, con grande serietà. Len rabbrividì, ricordando i suoi approcci e le sue ore spensierate nel roseto.
«Sì,» disse Hostetter, che lo stava fissando attentamente. «Sono d’accordo con te. Ma devi ammettere che, in un certo senso, l’uno merita l’altra.»
«Il fatto è che non riesco a vedere Esaù nelle vesti di un padre.»
«Potresti avere delle sorprese,» disse Hostetter. «E poi, lei lo terrà in riga. Non essere così sicuro, ragazzo. Verrà anche il tuo turno.»
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