Robert Silverberg - Mutazione

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Mutazione: краткое содержание, описание и аннотация

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Belzagor: un mondo misterioso, un pianeta preistorico immerso in un clima tropicale di vapori fumanti e di giungle intricate e abitato dai Nildoror, una razza indigena di esseri intelligenti simili ad elefanti, asserviti e schiavizzati dai terrestri durante i giorni dell’imperialismo interstellare, ma ora finalmente di nuovo liberi. Mentre i Nildoror attendono pazientemente la partenza delle ultime colonie umane, Edmund Gundersen, un tempo agente della Compagnia che aveva sottomesso gli abitanti del pianeta, e detentore del potere di vita e di morte, ritorna su questo strano mondo spinto da un intimo senso di colpa e dal desiderio di rivedere la bella Seena, da lui abbandonata dieci anni prima. Ma durante l’avventuroso pellegrinaggio nelle nebbie calde di Belzagor, molti incontri belli e orrendi attendono Gundersen, prima che egli possa osservare il mistico rituale della rinascita dei Nildoror, una cerimonia arcana che pochi terrestri hanno potuto vedere e a cui nessuno è sopravvissuto per riferirne.

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Gundersen uscì lentamente dalla stazione in rovina. — Qualcuno raccoglie ancora i succhi dei serpenti?

— Non qui — disse il nildor. Si inginocchiò. Il terrestre lo montò, e in silenzio Srin’gahar lo riportò sul sentiero che avevano seguito in precedenza.

4

Nel primo pomeriggio si avvicinarono all’accampamento dei nildor, che era la meta immediata di Gundersen. Per la maggior parte del giorno avevano viaggiato sulla vasta pianura costale, ma adesso il terreno declinò bruscamente, poiché nell’entroterra vi era una lunga e stretta depressione che correva da nord a sud, una profonda fenditura fra l’altopiano centrale e la costa. Avvicinandosi alla fenditura, Gundersen vide l’immensa devastazione del fogliame che segnalava la presenza di un grande branco di nildor nel raggio di pochi chilometri. Una cicatrice attraversava la foresta dal livello del terreno fino a circa due volte l’altezza di un uomo.

Perfino la fertilità tropicale e lunatica di quella regione non riusciva a tenere il passo con l’appetito dei nildor. Ci voleva un anno o più perché zone defoliate come quella riprendessero il loro aspetto normale. Tuttavia, malgrado l’impatto del branco, la foresta su tutti i lati della cicatrice era ancora più fitta che sulla pianura costiera. Quella era una giungla all’ennesima potenza, umida, scura, gocciolante. La temperatura era molto più alta che lungo la costa, e malgrado l’atmosfera non potesse essere più umida, c’era un senso di bagnato quasi tangibile nell’aria. Anche la vegetazione era diversa. Sulla pianura gli alberi tendevano ad avere foglie affilate, a volte in maniera pericolosa. Lì il fogliame era arrotondato, carnoso, pesanti dischi blu scuro, afflosciati, che luccicavano voluttuosamente ogni volta che un raggio di sole riusciva ad attraversare la coltre della foresta.

Gundersen e la sua cavalcatura continuarono a scendere, seguendo la linea della cicatrice. Costeggiarono un fiume che scorreva, perversamente, verso l’entroterra; il suolo era spugnoso, morbido, e spesso Srin’gahar si trovava a camminare nel fango sino al ginocchio. Stavano entrando in un grande bacino circolare, in quello che sembrava il punto più basso dell’intera regione. Dei ruscelli confluivano in esso da tre o quattro direzioni, formando un lago scuro, coperto di erbe; e attorno ai margini del lago c’era il branco di Srin’gahar. Gundersen vide parecchie centinaia di nildor che brucavano, dormivano, si accoppiavano, passeggiavano.

— Mettimi giù — disse, con sua stessa sorpresa. — Camminerò al tuo fianco.

Senza una parola, Srin’gahar lo lasciò smontare.

Gundersen rimpianse il suo impulso egualitario nel momento in cui mise piede a terra. I larghi piedi del nildor erano adatti ad affrontare il terreno fangoso, ma Gundersen scoprì che cominciava ad affondare se rimaneva fermo in uno stesso posto più di un momento. Ma ormai non sarebbe rimontato. Ogni passo era una lotta, ma lottò. Era anche teso, incerto sull’accoglienza che avrebbe ricevuto, e aveva fame, non avendo mangiato nulla durante il viaggio se non pochi fruttamari colti di passaggio da qualche albero. Il clima soffocante rendeva ogni respiro una battaglia. Si sentì molto sollevato quando il terreno divenne un po’ più solido, dopo un certo tratto. Qui una ragnatela di piante spugnose che si spandevano dal lago formava sotto il fango una piattaforma solida, se non rassicurante.

Srin’gahar sollevò la proboscide ed emise un fischio di saluto all’accampamento. Alcuni nildor risposero in maniera simile. A Gundersen, Srin’gahar disse: — Colui che è nato molte volte si trova ai margini del lago, amico del mio viaggio. Lo vedi, sì, in quel gruppo? Vuoi essere condotto da lui ora?

— Ti prego — disse Gundersen.

Il lago era soffocato da vegetazione galleggiante. Masse gibbose spuntavano ovunque alla superficie: foglie come cornucopie, sacche a forma di tazze, piene di spore, steli come corde intrecciate, tutto verde scuro contro il verde-azzurro dell’acqua. Attraverso questo labirinto vegetale si muovevano lentamente grandi mammiferi semiacquatici: una mezza dozzina di malidaror, i cui corpi tubolari, giallastri, erano quasi del tutto sommersi. Soltanto le protuberanze arrotondate delle loro schiene e i periscopi affioranti degli occhi montati su peduncoli erano visibili, e di tanto in tanto un paio di cavernose e sbuffanti narici. Gundersen poteva vedere gli immensi solchi che i malidaror avevano tagliato nella vegetazione quel giorno per nutrirsi, ma dalla parte opposta del lago le ferite stavano richiudendosi e nuova vegetazione si affrettava a riempire i vuoti.

Gundersen e Srin’gahar scesero verso l’acqua. D’improvviso il vento cambiò, e alle narici di Gundersen arrivò l’odore del lago. Tossì. Era come respirare i fumi di una tinozza di distilleria. Il lago era in fermentazione. L’alcool era un sottoprodotto della respirazione di quelle piante acquatiche, ed essendo privo di sbocchi, il lago diventava un’immensa botte di brandy. Sia l’acqua che l’alcool evaporavano a gran velocità, rendendo l’aria circostante non solo umida, ma anche inebriante; e durante secoli in cui l’evaporazione dell’acqua era stata superiore all’apporto dei ruscelli, la gradazione del residuo era costantemente aumentata. Quando la Compagnia governava il pianeta laghi come quello erano stati la rovina di più di un agente, Gundersen lo sapeva.

I nildor sembrarono prestargli scarsa attenzione, mentre si avvicinava. Gundersen era consapevole che ogni membro dell’accampamento in realtà lo stava osservando attentamente, ma tutti fingevano indifferenza, dedicandosi ai propri affari. Rimase perplesso vedendo una dozzina di rifugi di rami costruiti accanto a uno dei ruscelli. I nildor non vivevano in abitazioni di alcun genere; il clima lo rendeva inutile, e poi erano incapaci di costruire alcunché, non avendo organi di manipolazioni, a parte le tre “dita” all’estremità della proboscide. Studiò le rozze capanne, e dopo un momento gli venne in mente che aveva già visto strutture del genere: erano quelle dei sulidoror. Il mistero non faceva che infittirsi. Rapporti così stretti fra i nildor e i bipedi carnivori della zona delle nebbie erano una cosa del tutto nuova per lui. Vide i sulidoror medesimi, una ventina, seduti a gambe incrociate nelle loro capanne. Schiavi? Prigionieri? Amici della tribù? Nessuna di quelle ipotesi aveva senso.

— Questo è il nostro molte-volte-nato — disse Srin’gahar, indicando con la proboscide un nildor rugoso e venerabile nel mezzo del gruppo accanto al lago.

Gundersen provò un sentimento di reverenza, ispirato non solo dalla grande età della creatura, ma anche dalla consapevolezza che quella antica bestia, grigio-azzurra per gli anni, doveva aver partecipato molte volte ai riti inimmaginabili della cerimonia di rinascita. Il molte-volte-nato aveva viaggiato oltre la barriera dello spirito che tratteneva i terrestri. Qualsiasi Nirvana offriva la cerimonia della rinascita, questo essere l’aveva provato, e Gundersen no, e questa cruciale distinzione di esperienza rattrappì il suo coraggio mentre si avvicinava al capo della mandria.

Un anello di cortigiani circondava il vecchio. Avevano anch’essi la pelle raggrinzita e grigia: una congregazione di anziani. I nildor più giovani, della generazione di Srin’gahar, si tenevano a una rispettosa distanza. Non c’era alcun nildor immaturo nell’accampamento. Nessun terrestre aveva mai visto un nildor giovane. A Gundersen era stato detto che i nildor nascevano sempre nella zona delle nebbie, nel paese natale dei sulidoror, e apparentemente rimanevano lì in stretta clausura finché non raggiungevano l’equivalente nildor dell’adolescenza, quando migravano verso le giungle dei tropici. Aveva anche sentito dire che ciascun nildor sperava di tornare alla zona delle nebbie quando fosse giunto il suo momento di morire. Ma non sapeva se queste cose erano vere. Nessuno lo sapeva.

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