Robert Silverberg - Mutazione

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Belzagor: un mondo misterioso, un pianeta preistorico immerso in un clima tropicale di vapori fumanti e di giungle intricate e abitato dai Nildoror, una razza indigena di esseri intelligenti simili ad elefanti, asserviti e schiavizzati dai terrestri durante i giorni dell’imperialismo interstellare, ma ora finalmente di nuovo liberi. Mentre i Nildoror attendono pazientemente la partenza delle ultime colonie umane, Edmund Gundersen, un tempo agente della Compagnia che aveva sottomesso gli abitanti del pianeta, e detentore del potere di vita e di morte, ritorna su questo strano mondo spinto da un intimo senso di colpa e dal desiderio di rivedere la bella Seena, da lui abbandonata dieci anni prima. Ma durante l’avventuroso pellegrinaggio nelle nebbie calde di Belzagor, molti incontri belli e orrendi attendono Gundersen, prima che egli possa osservare il mistico rituale della rinascita dei Nildoror, una cerimonia arcana che pochi terrestri hanno potuto vedere e a cui nessuno è sopravvissuto per riferirne.

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— …più complicato di quanto chiunque avesse mai pensato — stava dicendo Van Beneker.

— Scusa. Non ti stavo seguendo.

— Non era importante. Qui teorizziamo un sacco. Gli ultimi cento rimasti. Quando intende partire?

— Hai fretta di sbarazzarti di me, Van?

— Ho bisogno di saperlo, signore — disse l’uomo, offeso. — Se rimane, abbiamo bisogno di provviste per lei, e…

— Me ne vado dopo colazione. Se mi dici come raggiungere l’accampamento nildor più vicino, per avere il permesso di viaggio.

— Venti chilometri in direzione sud-est. La porterei fin là con il mio scarafaggio, ma lei capisce, i turisti…

— Puoi procurarmi un passaggio con un nildor? — chiese Gundersen. — Se è troppo complicato, posso farmela a piedi, ma…

— Ci penso io — disse Van Beneker.

Un giovane nildor maschio apparve un’ora dopo colazione, per trasportare Gundersen all’accampamento. Ai vecchi tempi, Gundersen sarebbe semplicemente salito sulla sua schiena, ma adesso sentì la necessità di presentarsi. Uno non chiede a un essere intelligente autonomo di trasportarlo per venti chilometri attraverso la giungla, senza accondiscendere alle più elementari cortesie, pensò. — Sono Edmund Gundersen della prima nascita — disse — e ti auguro la gioia di molte rinascite, amico del mio viaggio.

— Io sono Srin’gahar della prima nascita — rispose tranquillamente il nildor — e ti ringrazio per il tuo desiderio, amico del mio viaggio. Ti servo di libera scelta, e attendo i tuoi comandi.

— Devo parlare con un molte-volte-nato per avere il permesso di viaggiare verso nord. L’uomo qui mi ha detto che mi porterai da uno di questi.

— Può essere fatto. Ora?

— Ora.

Gundersen aveva una sola valigia. L’appoggiò sul largo deretano del nildor, e immediatamente Srin’gahar curvò verso l’alto e in avanti la coda per tenerla ferma. Poi si inginocchiò e Gundersen eseguì il rituale necessario per montare. Tonnellate di potente carne si alzarono e si mossero obbedienti verso il margine della foresta. Era quasi come se nulla fosse cambiato.

Percorsero il primo chilometro in silenzio, attraverso una serie sempre più fitta di radure di fruttamara. A poco a poco Gundersen si rese conto che il nildor non avrebbe parlato, a meno che lui non gli avesse rivolto la parola per primo, e aprì la conversazione osservando che aveva vissuto su Belzagor dieci anni. Srin’gahar disse che lo sapeva; ricordava Gundersen dall’epoca del dominio della Compagnia. La natura del sistema vocale nildor impediva l’espressione di qualsiasi connotazione o sottinteso nella frase. Le parole uscivano piatte, un grugnito nasale che non rivelava se il nildor ricordava Gundersen con affetto, con astio, o con indifferenza. Gundersen avrebbe potuto ricavare qualche indizio dai movimenti della cresta di Srin’gahar, ma era impossibile per qualcuno seduto sulla groppa di un nildor individuare qualcosa di più dei movimenti più ampi. Il complicato sistema nildor di comunicazione non-verbale non era stato sviluppato a uso di passeggeri. E in ogni modo, Gundersen conosceva soltanto alcuni dei quasi infiniti gesti complementari, e ne aveva dimenticato la maggior parte. Ma il nildor sembrava abbastanza cortese.

Gundersen approfittò del viaggio per ripassare il suo nildororu. Finora se l’era cavata abbastanza bene, ma in una conversazione con un molte-volte-nato avrebbe avuto bisogno di tutta la sua abilità verbale. Più volte chiese: — Ho detto giusto? Correggimi se sbaglio.

— Parli molto bene — diceva sempre Srin’gahar.

In effetti la lingua non era difficile. Aveva una gamma limitata di vocaboli e una grammatica semplice. Le parole nildororu non avevano flessione; agglutinavano, aggiungendo sillaba a sillaba in maniera che un concetto complesso, come “il precedente pascolo del clan del mio compagno” risultava in un lungo brontolio non interrotto neppure da una breve pausa. La parlata nildor era lenta e pacata, e richiedeva dei suoni profondi che un terrestre doveva tirar fuori dal fondo delle narici; quando Gundersen passava dal nildororu a una qualsiasi lingua terrestre, provava un senso di liberazione, come un acrobata da circo trasportato di colpo da Giove a Mercurio.

Il grande corpo del nildor richiedeva pasti frequenti. Ogni mezz’ora si fermavano, e Gundersen smontava, mentre Srin’gahar masticava arbusti. Quella vista alimentava i pregiudizi latenti di Gundersen, disturbandolo a tal punto che cercò di non guardare. In maniera interamente elefantina, il nildor srotolava la proboscide e strappava rami frondosi dagli alberi più bassi, poi la grande bocca si spalancava per ingurgitare il tutto. Con le triple zanne Srin’gahar strappava pezzi di corteccia, come dessert. Le grandi mascelle si muovevano su e giù instancabili, stritolando, ruminando. Non siamo più belli, noi, quando mangiamo, si disse Gundersen, e il demone dentro di lui replicò alla sua tolleranza con stridula insistenza, sostenendo che il suo compagno era una bestia.

Srin’gahar non era un tipo espansivo. Quando Gundersen non diceva niente, il nildor non diceva niente; quando Gundersen faceva una domanda, il nildor rispondeva cortesemente, ma con la massima brevità. Lo sforzo di sostenere quel tipo di conversazione prosciugò Gundersen, e lasciò che passassero lunghi minuti in silenzio. Preso dal ritmo del passo cadenzato della grande creatura, si lasciava trasportare senza sforzo attraverso la giungla nebbiosa. Non aveva idea di dove fosse e non riusciva neppure a capire se stavano andando nella direzione giusta, poiché gli alberi sopra la sua testa si incontravano formando una volta chiusa che nascondeva il sole. Dopo che il nildor si fu fermato per il suo terzo pasto, fornì inaspettatamente a Gundersen un indizio sulla loro posizione. Tagliando dal sentiero in diagonale, trottò per una breve distanza nella zona più densa della foresta, abbattendo la vegetazione, e si arrestò di fronte a quello che un tempo era stato un edificio della Compagnia, una cupola trasparente ora resa opaca dal tempo e ricoperta di rampicanti.

— Conosci questa casa, Edmund della prima nascita? — chiese Srin’gahar.

— Cos’è?

— La stazione dei serpenti. Dove raccoglievate i succhi.

Il passato di colpo parve incombere su Gundersen come una parete di roccia. Immagini spezzate, allucinatorie, gli assalirono la mente. Antichi scandali, da tempo dimenticati o soppressi, balzarono a nuova vita. Questa la stazione dei serpenti? Questo rudere? Questo il luogo di peccati privati, lo scenario di tante cadute dallo stato di grazia? Gundersen sentì che le sue guance diventavano rosse. Scivolò dalla schiena del nildor e camminò incerto fino all’edificio. Si fermò un momento sulla porta, guardando dentro. Sì, ecco le tubature sospese, i canaletti attraverso cui era fluito il veleno estratto, le apparecchiature di raffinazione ancora al loro posto, per metà divorate dal calore, dall’umidità, dall’abbandono. C’era l’ingresso per i serpenti della giungla, attirati dalla musica aliena a cui non sapevano resistere, e qui venivano munti del loro veleno, e qui… e qui…

Gundersen gettò un’occhiata a Srin’gahar. Gli aculei sulla cresta del nildor erano ritti: un segno di tensione, un segno forse di vergogna condivisa. Anche il nildor possedeva ricordi di quell’edificio. Gundersen entrò nella stazione, spingendo la porta semiaperta. Si staccò dai cardini, e un tremito musicale, whang whang whang , riverberò per tutto lo sferico edificio, spegnendosi in un tintinnio sommesso, confuso. Whang , e Gundersen risentì la chitarra di Kurtz, e gli anni svanirono e tornò a essere un nuovo venuto sul Mondo di Holman, in procinto di iniziare il suo primo periodo alla stazione dei serpenti, assegnato finalmente a quel luogo che era la fonte di tante chiacchiere. Sì. Dal sudario delle memorie giunse l’immagine di Kurtz. Eccolo, in piedi appena al di fuori della porta della stazione, incredibilmente alto, l’uomo più alto che Gundersen avesse mai visto, con un grande cranio pallido, calvo ed enormi occhi scuri incassati sotto arcate sopraccigliari da uomo primitivo, e un sorriso di denti scintillanti che andava da un’orecchia all’altra. La chitarra fece whang e Kurtz disse: — Troverai tanti motivi di interesse qui, Gundy. Questa stazione è un’esperienza unica. Abbiamo sepolto il tuo predecessore una settimana fa. — Whang. - Naturalmente devi imparare a stabilire una distanza fra te stesso e quello che succede qui. Questo è il segreto per mantenere la propria identità su un mondo alieno, Gundy. Comprendere l’estetica della distanza: tracciare una linea di confine attorno a se stessi e dire al pianeta: fin qui puoi arrivare e consumarmi, non oltre. Altrimenti il pianeta alla fine ti assorbirà e ti renderà parte di sé. Sono stato chiaro?

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