È interamente avvolto dalla gelatina. Essa ricopre il pavimento della camera per l’altezza di un metro. La luce la penetra fiocamente. Gundersen sa che la superficie è liscia è impeccabile, e forma un perfetto sigillo dove tocca le pareti della cella. Adesso è diventato una crisalide. Non gli verrà dato altro da bere. Giacerà lì e rinascerà.
Uno deve morire per poter rinascere.
La morte giunge e lo avvolge. Dolcemente scivola nell’abisso nero. Tenero è l’abbraccio della morte. Gundersen galleggia in un regno di vuoto tremolante. È sospeso nel nero nulla. Raggi di luce scarlatta e purpurea lo trafiggono, colpendolo come sbarre di metallo. Egli trema. Gira su se stesso. Si innalza.
Incontra di nuovo la morte, e lottano, ed è sconfitto dalla morte, e il suo corpo viene rabbrividito in frammenti e una cascata di luminosi pezzi di Gundersen si sparpaglia nello spazio.
I frammenti si cercano. Girano solennemente l’uno intorno all’altro. Si uniscono. Prendono la forma di Edmund Gundersen, ma questo nuovo Gundersen brilla come puro, trasparente cristallo: un uomo trasparente attraverso cui la luce passa senza resistenza. Uno spettro di luce scaturisce dal suo petto. Lo splendore del suo corpo illumina le galassie.
Strisce di colore emanano da lui e lo uniscono a tutti coloro che nell’universo possiedono g’rakh.
Partecipa della saggezza biologica del cosmo.
Accorda la sua anima all’essenza di ciò che è e di ciò che dove essere. È senza limiti. Può toccare qualsiasi anima. Si protende verso l’anima di Na-sinisul, e il sulidor lo saluta e lo accoglie. Si protende verso Srin’gahar, verso Vol’himyor il molte-volte-nato, verso Luu’khamin, Se-holomir, Yi-gartigok, verso i nildor e i sulidoror che giacciono nelle caverne della metamorfosi, e verso gli abitatori della foresta delle nebbie, e verso gli abitatori delle giungle umide e verso coloro che danzano rabbiosamente sull’altopiano selvaggio, e verso tutti coloro su Belzagor che condividono g’rakh.
E raggiunge qualcuno che non è né nildor né sulidor, un’anima dormiente, un’anima velata, un’anima di un colore e di un timbro e di una consistenza diversa da tutte le altre. È un’anima nata sulla Terra, l’anima di Seena, e la chiama sommessamente, dicendo: Svegliati, svegliati, ti amo, sono venuto per te. Lei non si sveglia. La chiama: sono nuovo, sono rinato, trabocco di amore. Unisciti a me. Diventa parte di me. Seena? Seena? Seena? E lei non risponde.
Vede anche le anime di altri terrestri ora. Hanno g’rakh , ma la razionalità non basta; le loro anime sono cieche e silenziose. Qui c’è Van Beneker; qui i turisti; qui i guardiani di avamposti solitari nella giungla. Qui il vuoto grigio e carbonizzato dov’era l’anima di Cedric Cullen.
Non riesce a raggiungere alcuno di loro.
Si sposta e una nuova anima risplende oltre la nebbia. È l’anima di Kurtz. Kurtz viene da lui o lui va da Kurtz e Kurtz non è addormentato.
Adesso sei fra di noi, dice Kurtz, e Gundersen dice: Sì, sono qui finalmente. Anima si apre ad anima e Gundersen guarda nell’oscurità di Kurtz, oltre la cortina grigio perla che circonda il suo spirito, in un luogo di terrore dove nere figure dalle molte gambe si spostano lungo ragnatele nodose. Forme caotiche si coagulano, si espandono, si dissolvono all’interno di Kurtz. Gundersen guarda al di là di questa oscura e lugubre zona, e al di là di questa trova una luce fredda e dura che brilla bianca dal luogo più profondo, e allora Kurtz dice: Vedi? Vedi? Sono un mostro? Ho del buono in me.
Non sei un mostro, dice Gundersen.
Ma ho sofferto, dice Kurtz.
Per i tuoi peccati, dice Gundersen.
Ho pagato per i miei peccati con le mie sofferenze, e adesso dovrei essere libero.
Sì, hai sofferto, dice Gundersen.
Quando finiranno le mie sofferenze, dunque?
Gundersen risponde che non lo sa, che non è lui a dare un limite a queste cose.
Kurtz dice: Ti conoscevo. Un giovane simpatico, un po’ tardo. Seena dice bene di te. Qualche volta desidera che le cose fossero andate in un’altra maniera per te e lei. Invece ha avuto me. Ed eccomi qui. Eccoci qui. Perché non mi liberi?
Cosa posso fare? chiede Gundersen.
Lasciami tornare alla montagna. Lasciami terminare la mia rinascita.
Gundersen non sa cosa rispondere, e cerca nel circuito di g’rakh , consulta Na-sinisul, consulta Vol’himyor, consulta tutti i molte-volte-nati, ed essi si uniscono, si uniscono, parlano con una voce sola, dicono a Gundersen con voce di tuono che Kurtz ha terminato, che la sua rinascita è finita, che non può tornare alla montagna.
Gundersen riferisce questo a Kurtz, ma Kurtz ha già sentito. Kurtz si contrae. Kurtz scompare nel buio. Viene invischiato nelle sue ragnatele.
Abbi pietà di me, grida a Gundersen attraverso un vasto abisso. Abbi pietà di me, poiché questo è l’inferno, e io ci sono dentro.
Gundersen dice: Ho pietà di te. Ho pietà di te. Ho pietà di te. Ho pietà di te.
L’eco della sua voce diminuisce infinitamente. Tutto è silenzio. Dal vuoto, d’improvviso, giunge la risposta senza parole di Kurtz, un crescendo acuto e assordante di rabbia e odio e malvagità, l’urlo di un Prometeo imperfetto che cerca di allontanare il becco che lo dilania. L’urlo raggiunge un culmine di distruttiva intensità. Si spegne. Il tessuto tremante dell’universo ritorna immobile. Una morbida luce viola appare, assorbendo le restanti disarmonie di quel terribile grido.
Gundersen piange per Kurtz.
Il cosmo si riempie di lacrime scintillanti, e su quel fiume salato galleggia Gundersen, trasportato senza volontà, visitando questo e quel mondo, scivolando fra le nebulose, attraversando nuvole di polvere cosmica, librandosi sopra strani soli.
Non è solo. Na-sinisul è con lui, e Srin’gahar, e Vol’himyor, e tutti gli altri.
Diviene consapevole dell’armonia di tutte le cose g’rakh. Vede per la prima volta i legami che uniscono g’rakh a g’rakh. Colui che giace nella rinascita è in contatto con tutte quante, in ogni momento e in tutti i momenti, ogni anima del pianeta unita in un contatto senza parole.
Vede l’unità di tutto il g’rakh , e questo lo fa sentire umile e timoroso.
Percepisce la complessità di questo popolo doppio, il ritmo della sua esistenza, l’infinito alternarsi di cicli di rinascita e di nuova creazione, al di sopra dell’unione, dell’unità fondamentale. Percepisce il proprio mostruoso isolamento, le mura che lo separano dagli altri uomini, che separano uomo da uomo, ciascuno prigioniero nel proprio cranio. Vede cosa significa vivere fra gente che ha imparato come liberare il prigioniero del cranio.
Questa consapevolezza lo fa sentire piccolo, lo schiaccia. Pensa: Li abbiamo fatti schiavi, li abbiamo chiamati bestie, e per tutto il tempo loro erano uniti, le loro menti si parlavano senza parole, si trasmettevano reciprocamente la musica dell’anima. Noi eravamo soli e loro non lo erano, e invece di inginocchiarci davanti a loro, di implorarli di farci partecipare al miracolo, li facevamo lavorare per noi.
Gundersen piange per Gundersen.
Na-sinisul dice: Questo non è il momento per il dolore, e Srin’ga-har dice: Il passato è passato, e Vol’himyor dice: Attraverso il rimorso tu sei redento, e tutti parlano con una sola voce e nello stesso momento, e Gundersen comprende. Comprende.
Ora Gundersen comprende tutto.
Sa che nildor e sulidoror non sono due specie separate, ma solo forme della medesima creatura, non più diversi di quanto lo siano bruchi e farfalle, anche se non saprebbe dire quale sia il bruco e quale la farfalla. È consapevole di com’era la vita per i nildor quando erano nel loro stato primordiale, e nascevano come nildor, e morivano inermi come nildor, quando sopravveniva l’inevitabile decadenza della loro anima. E conosce la paura e l’estasi di quei primi nildor che accettarono la tentazione dei serpenti e bevvero la droga della liberazione, e divennero esseri con pelliccia e artigli, malformati e trasmutati. E conosce il loro dolore, quando vennero scacciati fino all’altopiano, dove nessun essere in possesso di g’rakh osava avventurarsi.
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