Andò all’imboccatura della caverna.
Vide solo buio all’interno. Né sulidoror né nildor apparivano all’ingresso. Fece un passo, cauto. La caverna era fredda, ma di un freddo secco, molto più piacevole del gelo intriso di nebbia all’esterno. Estraendo la torcia a fusione, arrischiò un rapido lampo di luce, e scoprì di trovarsi al centro di un’immensa camera, il cui soffitto altissimo si perdeva nell’ombra. Le pareti della camera erano una fantasia barocca di pieghe e sporgenza, contrafforti e torri di pietra lucida e trasparente, che scintillò come vetro nell’istante in cui la luce la colpì. Proprio davanti a lui, fiancheggiato da due ali ondulate di pietra, spalancate come tende solide, c’era un passaggio, grande abbastanza per Gundersen, ma probabilmente piuttosto difficoltoso per i nildor che erano venuti prima di lui.
Si avviò verso di esso.
Altri due lampi della torcia lo fecero arrivare. Poi proseguì a tentoni, tenendosi vicino a un fianco dell’apertura. Il corridoio piegava bruscamente a sinistra, e dopo circa venti passi piegava altrettanto bruscamente dalla parte opposta. Superando la seconda curva, una fievole luce accolse Gundersen. Una formazione fungoide verde pallido che cresceva sul soffitto forniva un minimo di illuminazione. Si sentì sollevato, ma anche vulnerabile: adesso poteva vedere, ma anche essere visto.
Il corridoio era circa due volte la grandezza di un nildor e tre volte l’altezza, e il soffitto formava un arco acuto, in cui crescevano i fungoidi. Si addentrava per quella che sembrava una distanza infinita nella montagna. Ai lati si aprivano camere e passaggi secondari.
Avanzò e sbirciò nella prima di queste camere. Conteneva qualcosa di grande, strano, e apparentemente vivo. Sul pavimento di nuda pietra giaceva una massa di carne rosa, informe e immobile. Gundersen distinse arti corti e grossi e una coda avvolta strettamente sopra larghi fianchi; non riuscì a vedere la testa, né alcun segno che gli permettesse di associarla a qualche specie conosciuta. Avrebbe potuto essere un nildor, ma non era grande abbastanza. Mentre guardava, si gonfiò respirando, e si sgonfiò lentamente. Passarono molti minuti prima che inalasse un altro respiro. Gundersen proseguì.
Nella cella successiva trovò una massa analoga di carne indefinibile. Nella terza un’altra. La quarta cella, sul lato opposto del corridoio, conteneva un nildor della specie occidentale, profondamente addormentato. La cella successiva era occupata da un sulidor che giaceva, stranamente, sulla schiena, con le membra irrigidite verso l’alto. La cella successiva conteneva un sulidor nella stessa posizione, ma peraltro sorprendentemente diverso, poiché si era spogliato della spessa pelliccia e giaceva nudo, rivelando tremendi muscoli sotto la pelle grigia e lustra. Proseguendo Gundersen arrivò a una camera che ospitava qualcosa di ancora più bizzarro: una creatura che possedeva gli aculei, la proboscide, le zanne di un nildor, ma braccia, gambe e tronco di un sulidor. Che agglomerato da incubo era quello? Gundersen rimase davanti a esso a lungo, stupefatto, cercando di comprendere come la testa di un nildor avesse potuto essere innestata al corpo di un sulidor. Si rese conto che non poteva trattarsi di un innesto; il dormiente partecipava semplicemente delle caratteristiche di entrambe le razze in un singolo corpo. Un ibrido? Una fusione genetica?
Non lo sapeva. Ma adesso sapeva che quella non era una stazione di passaggio nella strada verso la rinascita. Quello era il luogo della rinascita medesima.
Molto davanti a lui, delle figure emersero da uno dei corridoi laterali e attraversarono quello principale: due sulidoror e un nildor. Gundersen si appiattì contro una parete e rimase immobile fino a quando non sparirono alla vista, in una della camere. Poi proseguì.
Non vide altro che miracoli. Era in un giardino di bizzarrie, dove nessuna barriera esisteva.
Vide una massa spugnosa e rotonda di morbida carne rosa, con un unico tratto distintivo che sporgeva da essa: la grossa coda di un sulidor.
Vide un sulidor con tutta la sua pelliccia, con tronco e orecchie di nildor.
Vide carne che non era né di sulidor né di nildor, ma viva e passiva, come una cosa in attesa della mano dello scultore.
Vide un’altra cosa che assomigliava a un sulidor le cui ossa si fossero fuse.
Vide un’altra cosa che assomigliava a un nildor che non avesse mai avuto ossa.
Vide proboscidi, aculei, zanne, artigli, code, zampe. Vide pellicce e pelle liscia. Vide carne scorrere alla ricerca di nuove forme. Vide camere buie, illuminate solo dalla luminescenza dei fungoidi, in cui non esisteva una netta distinzione fra specie.
Le leggi della biologia sembravano sospese in quel luogo. Non era una banale sollecitazione dei geni, Gundersen lo sapeva. Sulla Terra qualsiasi tecnico da salone genetico era in grado di ridisegnare il plasma genetico di un organismo con qualche preciso colpo di ago e poche iniezioni; poteva indurre una cammella a generare un ippopotamo, una gatta a generare una tamia, o magari una donna a generare un sulidor. Bastava rinforzare le caratteristiche desiderate entro lo sperma e l’uovo, e sopprimere altre caratteristiche, fino ad avere una copia ragionevole della creatura desiderata. I mattoni genetici fondamentali erano gli stessi per ogni forma di vita; riorganizzandoli, si poteva creare ogni genere di mostruosa progenie. Ma quello che stava accadendo lì era una cosa diversa.
Sulla Terra, Gundersen lo sapeva, era anche possibile indurre qualsiasi cellula vivente a svolgere la funzione di un uovo fertilizzato, dividersi, crescere, produrre un organismo completo. Il veleno di Belzagor era un catalizzatore per questo processo; ce n’erano altri. In questa maniera si poteva indurre il moncone di un braccio a riprodurre quel braccio; si poteva da un frammento di pelle di rana generare un esercito di rane; si poteva perfino ricostruire un intero essere umano dai resti di un corpo distrutto. Ma quello che stava accadendo lì era una cosa diversa.
Quello che stava accadendo lì, si rese conto Gundersen, era una trasmutazione di specie, una trasformazione che avveniva non su uova, ma su organismi adulti. Adesso comprendeva le parole di Na-sinisul, quando gli aveva chiesto se anche i sulidoror subivano la rinascita: “Se non ci fosse il giorno, potrebbe esistere la notte?” Sì. Nildor in sulidor. Sulidor in nildor. Gundersen ebbe un brivido di incredulità. Dovette appoggiarsi alla parete per non cadere. Si sentiva scagliato in un universo senza punti fissi. Cos’era reale? Cos’era durevole?
Comprendeva adesso cosa era accaduto a Kurtz in quella montagna.
Gundersen capitò in una cella dove una creatura giaceva a metà di una metamorfosi. Più piccola di un nildor, più grande di un sulidor; denti e non zanne; proboscide e non naso; pelliccia, non pelle coriacea; grandi piedi piatti e non artigli; corpo adatto a camminare in posizione eretta.
— Chi sei? — sussurrò Gundersen. — Cosa sei? Cosa eri? Da che parte ti stai dirigendo?
Rinascita. Ciclo dopo ciclo dopo ciclo. Nildoror che pellegrinavano a nord, entravano in quella caverna, diventavano… sulidoror? Era possibile?
Se è vero, pensò Gundersen, allora non abbiamo mai capito niente di questo pianeta. Ed è vero.
Corse all’impazzata da una cella all’altra, senza più preoccuparsi di essere scoperto. Ciascuna cella confermò il suo sospetto. Vide nildor e sulidoror in ogni stadio di metamorfosi, alcuni quasi interamente nildor, alcuni indubitabilmente sulidoror, ma la maggior parte in qualche stadio intermedio fra un estremo e l’altro; più della metà erano a tal punto trasfigurati che gli era impossibile capire quale sarebbe stato il punto di arrivo. Tutti dormivano. Davanti ai suoi occhi la carne scorreva, ma nulla si muoveva. In quelle fredde camere immerse nella penombra, il mutamento giungeva come un sogno.
Читать дальше