C’era qualcosa che non andava.
La nebbia si richiuse; ma Gundersen esitò a proseguire senza essersi assicurato che tutto fosse come doveva essere. Si abbassò e immerse una mano nell’acqua. Sentì la corrente venire da destra e colpirgli il palmo aperto. Stancamente, chiedendosi se il freddo e la fatica non gli avessero confuso la mente, ricapitolò la topografia della situazione parecchie volte, giungendo invariabilmente alla stessa avvilente conclusione: se sto attraversando in direzione nord un fiume che scorre da ovest a est, dovrei sentire la corrente venire dalla mia sinistra. In qualche maniera aveva girato su se stesso mentre cercava un appiglio nell’acqua, e da quel momento aveva continuato con grande diligenza a dirigersi verso la riva meridionale del fiume.
La sua fede in se stesso ne uscì distrutta. Venne tentato di fermarsi lì, aggrappato a quella roccia, in attesa che la nebbia si diradasse prima di proseguire; poi gli venne in mente che forse avrebbe dovuto attendere tutta notte, o magari ancora di più. Si ricordò anche, in ritardo, che aveva con sé l’equipaggiamento adatto per affrontare simili problemi. Dallo zaino estrasse il piccolo cilindro freddo della bussola e lo puntò verso l’orizzonte, facendole compiere un arco che finì quando sentì il “biip” che indicava il nord. Questo confermò le sue conclusioni circa la corrente, e riprese la traversata del fiume, giungendo poco dopo nel punto dove era caduto in precedenza. Questa volta non ebbe difficoltà.
Giunto sulla riva opposta, si spogliò e asciugò se stesso e gli abiti con il raggio della torcia alla minima potenza. La notte ormai era scesa. Non gli sarebbe spiaciuto un altro invito in un villaggio sulidoror, ma quel giorno non apparvero cacciatori ospitali. Trascorse una scomoda notte accoccolato sotto un cespuglio.
Il giorno successivo fu più caldo e meno nebbioso. Gundersen proseguì stancamente, tormentato dal timore che le dure ore di marcia potessero risultare sprecate, quando avesse incontrato qualche ostacolo imprevisto. Ma andò tutto bene, e riuscì senza difficoltà ad attraversare i ruscelli e i torrenti che incontrò sul suo cammino. La terra qui era corrugata e piegata, come se due mani gigantesche, una da nord e Una da sud, l’avessero schiacciata. Ma mentre Gundersen scendeva un pendio e risaliva il successivo, guadagnava costantemente in altezza, poiché l’intero continente si inclinava verso il possente altopiano su cui si innalzava la montagna della rinascita.
Verso il primo pomeriggio l’andamento prevalente delle pieghe, da est a ovest, cambiò direzione e si trovò a camminare parallelamente a una serie di scanalature poco profonde, che andavano da sud a nord, e che terminarono in una pianura circolare, priva di alberi. I grandi animali del nord, i cui nomi Gundersen non conosceva, brucavano numerosi, frugando col muso fra l’erba coperta da una spruzzata di neve. Pareva ci fossero solo quattro o cinque specie: una di animali dalle zampe grosse e la schiena arcuata, come mucche mal formate, un’altra di gazzelle sovradimensionate, e poche altra, ma ce n’erano centinaia o migliaia di esemplari di ciascuna specie. In lontananza, verso est, ai margini della pianura, Gundersen vide quello che sembrava un piccolo gruppo di cacciatori sulidoror, che ammassavano alcuni degli animali.
Di nuovo sentì il ronzio del motore.
Lo scarafaggio che aveva visto il giorno prima tornò, volando alquanto basso. Istintivamente Gundersen si gettò a terra, sperando di passare inosservato. Attorno a lui gli animali si agitarono, inquieti, perplessi dal rumore, ma non fuggirono. Lo scarafaggio atterrò a un migliaio di metri da lui. Gundersen decise che Seena doveva essere venuta a cercarlo, sperando di trovarlo prima che potesse consegnarsi ai sulidoror della montagna della rinascita. Ma si sbagliava. Il portello dello scarafaggio si aprì, e Van Beneker con i suoi turisti ne emersero.
Gundersen strisciò avanti, finché non fu al riparo di una piccola macchia di piante simili a cardi, su una bassa altura. Non poteva sopportare l’idea di incontrare di nuovo quella gente, non a quel punto del suo pellegrinaggio, quando era stato purgato da tante vestigia dei Gundersen passati.
Li osservò.
Camminarono verso gli animali, fotografandoli, osando perfino toccare alcune delle bestie più pigre. Gundersen sentì le loro voci e le loro risate spezzare il silenzio. Parole isolate lo raggiunsero, prive di senso quanto il flusso partorito dai sogni di Kurtz. Sentì anche la voce di Van Beneker che si levava sopra il chiacchiericcio, spiegando e illustrando. Quei nove esseri umani sul prato, davanti a lui, gli sembravano altrettanto alieni quanto i sulidoror. Forse di più. Era consapevole che quegli ultimi giorni di nebbia e di gelo, questa solitaria odissea attraverso un mondo bianco e silenzioso, avevano prodotto in lui una trasformazione che a stento riusciva a comprendere. Si sentiva l’anima leggera, liberata dall’eccessivo bagaglio dello spirito, un uomo più semplice sotto tutti i punti di vista, eppure più complesso.
Aspettò un’ora o più, nascosto, che i turisti finissero la loro visita del pascolo. Poi tutti tornarono allo scarafaggio. Dove sarebbero andati adesso? Van Beneker li avrebbe portati a nord, per spiare la montagna della rinascita? No. Non era possibile. Van Beneker aborriva l’intera faccenda della rinascita, come tutti i bravi terrestri: non avrebbe osato sconfinare in quella regione misteriosa.
Ma quando lo scarafaggio decollò, si diresse verso nord.
Gundersen, nella sua angoscia, urlò che tornasse indietro. Come se l’avesse sentito, il veicolo scintillante virò, dopo aver guadagnato in altezza. Van Beneker doveva aver approfittato di un vento favorevole, nulla più. Lo scarafaggio si diresse verso sud. Il giro era finito. Gundersen lo vide passare direttamente sopra di lui e sparire in un alto banco di nebbia. Senza fiato per il sollievo, corse avanti, facendo scappare con alte grida gli animali esterrefatti.
Ora tutti gli ostacoli sembravano alle sue spalle. Gundersen attraversò la valle, superò uno spartiacque innevato senza difficoltà, guadò un torrente poco profondo, si fece strada in una foresta di fitti alberi bassi e grossi, con una stretta corona di foglie appuntite. Assunse un ritmo di viaggio tranquillo, senza prestare più attenzione al freddo, alla nebbia, all’umidità, all’altezza, alla stanchezza. Era in armonia con il suo compito. Quando dormiva, dormiva profondamente; quando cercava cibo per integrare le sue razioni, trovava cibo buono; quando voleva coprire grandi distanze, ci riusciva. La pace della foresta nebbiosa lo ispirava a compiere prodigi. Si mise alla prova, cercando i limiti della propria resistenza, li trovò, li superò alla prima occasione.
Durante questa parte del suo viaggio fu completamente solo. Qualche volta vide tracce di sulidoror sulla sottile crosta di neve che copriva la maggior parte del terreno, ma non incontrò nessuno. Lo scarafaggio non tornò. Anche i suoi sogni erano vuoti; il fantasma di Kurtz che l’aveva tormentato in precedenza era sparito, e sognava solo nude astrazioni, che scordava al risveglio.
Non sapeva quanti giorni fossero passati dalla morte di Cedric Cullen. Il tempo scorreva e si scioglieva in se stesso. Non provava impazienza, né stanchezza, neppure il desiderio che tutto fosse finito. E fu così con una certa sorpresa che alzando gli occhi si accorse, mentre si arrampicava lungo un liscio cornicione di roccia largo circa trenta metri, delimitato da una parete di ghiaccioli e decorato qua e là da ciuffi d’erba e alberi stentati, che aveva cominciato la scalata della montagna della rinascita.
Da lontano la montagna era sembrata innalzarsi poderosamente dalla pianura nebbiosa in un solo immenso bastione. Ma adesso che Gundersen era giunto sulle sue pendici, vide che a distanza ravvicinata la montagna si dissolveva in una serie di contrafforti di pietra rosa, uno sopra l’altro. La totalità della montagna era costituita dalla somma di questi, ma dalla sua posizione non aveva la sensazione di una massa unitaria. Non poteva scorgere neppure le guglie, le torri, le cupole che sapeva dovevano trovarsi a migliaia di metri sopra di lui. Uno strato di nebbia tagliava la montagna a metà della sua altezza, permettendogli di vedere solo la vasta e incomprensibile base. Il resto, che l’aveva guidato per centinaia di chilometri, poteva anche non essere mai esistito.
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