— Tu sì?
— Forse capirò quando sarò tornato.
— Tornerai come lui ! — urlò Seena. Corse verso il letto di Kurtz. — Guardalo! Guardagli i piedi! Guardagli gli occhi! La bocca, il naso, le dita, e tutto il resto! Non è più un uomo. Vuoi finire come lui, a farfugliare parole senza senso, a vivere dentro un sogno folle tutto il giorno e tutta la notte?
Gundersen esitò. Kurtz era una vista tremenda; era ossessionato al punto da voler affrontare la stessa trasformazione?
— Devo andare — disse, meno fermamente di prima.
— Vive nell’inferno — disse Seena. — E ci finirai anche tu.
Andò da Gundersen e si strinse a lui. Sentì le punte calde dei seni sfregare contro la sua pelle; le sue mani gli premettero disperatamente la schiena; le loro cosce si toccarono. Una grande tristezza scese su Gundersen: per tutto quello che Seena aveva significato un tempo per lui, per tutto quello che era stata, per quello che era diventata, per quello che doveva essere la sua vita con quel mostro a cui badare. Fu scosso da una visione del passato perso e irrecuperabile, del presente oscuro e incerto, del futuro squallido e tremendo. Ancora una volta esitò. Poi la scostò dolcemente. — Mi dispiace — disse. — Io vado.
— Perché? Perché? Che cosa inutile ! — Le lacrime le scesero lungo le guance. — Se hai bisogno di una religione — disse — scegli una religione terrestre. Non c’è ragione per cui tu debba…
— C’è una ragione — disse Gundersen. Se la tirò vicino di nuovo e le baciò molto delicatamente le palpebre, poi le labbra. Poi la baciò fra i seni, e la lasciò andare. Andò un momento da Kurtz e rimase un momento a guardarlo, cercando di venire a patti con la bizzarra metamorfosi dell’uomo. Notò una cosa che non aveva osservato prima: la pelle sulla schiena di Kurtz si era indurita, come se piccole placche scure si andassero formando ai due lati della spina dorsale. Senza dubbio c’erano molti altri cambiamenti, evidenti solo a un’esame ravvicinato. Gli occhi di Kurtz si riaprirono, e i globi scuri e lucidi si mossero, come se cercassero di incontrare gli occhi di Gundersen. Lui li fissò, fissò il disegno di puntini azzurri sullo sfondo lucido e uniforme. Kurtz, fra molti suoni che Gundersen non riuscì a comprendere, disse: — Danzare… vivere… cercare… morire… morire.
Era tempo di andarsene.
Passando accanto alla figura immobile e rigida di Seena, Gundersen uscì dalla stanza. Quando raggiunse la veranda, vide che i suoi cinque nildor erano fuori dalla stazione, nel giardino, con un robot che li sorvegliava nervosamente, temendo che cominciassero a strappare piante rare come cibo. Gundersen chiamò, e Srin’gahar alzò lo sguardo.
— Sono pronto — disse Gundersen. — Possiamo partire non appena avrò preso le mie cose.
Trovò i suoi vestiti e si preparò a partire. Seena venne ancora da lui; indossava un vestito nero, aderente, e aveva lo sdrucciolo avvolto intorno al braccio sinistro. La faccia era cupa. Gundersen disse: — Hai qualche messaggio per Ced Cullen, se lo trovo?
— Non ho messaggi per nessuno.
— Va bene. Grazie per l’ospitalità, Seena. È stato bello rivederti.
— La prossima volta che ti vedrò — disse lei — non saprai chi sono. O chi sei tu.
— Forse.
La lasciò e andò dai nildor. Srin’gahar, in silenzio, accettò il suo peso. Seena uscì sulla veranda della stazione, e li guardò partire. Non lo salutò, e neppure lui. Poco dopo non poté più vederla. La processione si mosse lungo la riva del fiume, oltre il luogo dove Kurtz aveva danzato insieme ai nildor, tanti anni prima.
Kurtz. Chiudendo gli occhi, Gundersen rivide lo sguardo vitreo e cieco, la fronte alta, la faccia appiattita, la carne devastata, le gambe contorte, i piedi deformi. Contro questa immagine collocò i suoi ricordi del vecchio Kurtz, quell’uomo bello e straordinario, così alto e magro, così sicuro di sé. Quali demoni avevano spinto Kurtz alla fine a consegnare la sua anima e il suo corpo ai sacerdoti della rinascita? Quanto tempo aveva richiesto la metamorfosi di Kurtz, e aveva provato dolore durante il processo, e quale consapevolezza aveva ora della sua condizione? Cosa aveva detto Kurtz? Sono Kurtz che ha giocato con le vostre anime, e adesso vi offro la mia? Gundersen non aveva mai sentito parlare Kurtz in un tono diverso dal distacco sardonico; come aveva potuto Kurtz mostrare una vera emozione: paura, rimorso, colpa? Sono Kurtz il peccatore, prendetemi e fate di me ciò che volete. Sono Kurtz, l’angelo caduto. Sono Kurtz il dannato. Sono Kurtz e sono vostro. Gundersen immaginò Kurtz che giaceva in qualche valle nebbiosa del nord, le sue ossa ammorbidite dagli elisir dei sulidoror, il suo corpo che si dissolveva, si trasformava in un ammasso di gelatina rosa, libero adesso di cercare una nuova forma, di aspirare a una nuova kurtzità, libera dalle antiche impurità sataniche. Era presuntuoso volersi collocare nella stessa classe di Kurtz, pretendere gli stessi difetti spirituali, avviarsi incontro allo stesso terribile destino? Non aveva forse ragione Seena a dire che quello era un gioco, che lui stava recitando semplicemente una commedia masochistica, eleggendosi a eroe di un mito tragico, gravato dall’ossessione di intraprendere un pellegrinaggio alieno? Ma l’ossessione era del tutto reale per lui, e niente affatto finta. Andrò, si disse Gundersen. Non sono Kurtz, ma andrò, perché devo andare. In lontananza, ma ancora potente, il rombo e il pulsare della cascata risuonavano ancora, e mentre l’acqua si gettava a capofitto dal precipizio, sembrava echeggiare le parole di Kurtz, l’avvertimento, la benedizione, la minaccia, la profezia, la maledizione: acqua sonno morte salvare sonno sonno fuoco amore acqua sogno freddo sonno proposito salire cadere salire cadere salire salire salire.
Cadere.
Per scopi amministrativi, durante gli anni di occupazione del Mondo di Holman i terrestri avevano arbitrariamente tracciato dei confini, scegliendo quel parallelo di latitudine, quel meridiano di longitudine per definire un distretto o un settore. Dal momento che Belzagor medesimo non aveva nozione di paralleli e meridiani o di altre misure e confini umani, queste suddivisioni esistevano ormai solo negli archivi della Compagnia e nei ricordi della decrescente popolazione umana del pianeta. Ma c’era un confine che non era affatto arbitrario, e che conservava ancora il suo valore: la linea naturale che divideva i tropici dal paese delle nebbie. Da una parte di questa linea giacevano gli altopiani tropicali, bagnati dal sole, fertili, che formavano il limite superiore della striscia di lussureggiante vegetazione che giungeva fino alla torrida giungla equatoriale. Dall’altra parte di questa linea, a soli pochi chilometri di distanza, le nuvole del nord arrivavano in grandi masse, creando il bianco mondo delle nebbie. Il passaggio era brusco, e per un nuovo venuto perfino terrificante. La cosa poteva essere prosaicamente spiegata come una conseguenza dell’inclinazione assiale di Belzagor e dell’effetto che questa aveva sullo scioglimento delle calotte polari, in cui tanta umidità era rinchiusa; le calotte si stendevano talmente all’interno delle zone temperate che il calore dei tropici riusciva a lambirle, liberando grandi masse di vapore acqueo che si innalzava, prendeva la direzione dei poli e ritornava alle calotte come neve rigeneratrice; si poteva argomentare sulla collisione dei climi, e sulle risultanti zone marginali, che non erano né calde né fredde, ma perennemente avvolte nelle dense nuvole prodotte da questa collisione. Ma queste spiegazioni non preparavano allo shock di attraversare la linea di confine. C’erano alcuni segnali di preavviso: banchi isolati di nebbia che arrivavano da nord e nascondevano vasti tratti degli altopiani tropicali finché il sole di mezzogiorno non li scacciava. Tuttavia, il vero cambiamento, quando arrivava, era così radicale, assoluto, da lasciare confusi. Su altri mondi uno si abituava a lenti passaggi da un clima all’altro, oppure a un clima uniforme; era difficile accettare il brusco passaggio dal caldo confortevole al freddo e alla desolazione.
Читать дальше