Robert Silverberg - Mutazione

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Belzagor: un mondo misterioso, un pianeta preistorico immerso in un clima tropicale di vapori fumanti e di giungle intricate e abitato dai Nildoror, una razza indigena di esseri intelligenti simili ad elefanti, asserviti e schiavizzati dai terrestri durante i giorni dell’imperialismo interstellare, ma ora finalmente di nuovo liberi. Mentre i Nildoror attendono pazientemente la partenza delle ultime colonie umane, Edmund Gundersen, un tempo agente della Compagnia che aveva sottomesso gli abitanti del pianeta, e detentore del potere di vita e di morte, ritorna su questo strano mondo spinto da un intimo senso di colpa e dal desiderio di rivedere la bella Seena, da lui abbandonata dieci anni prima. Ma durante l’avventuroso pellegrinaggio nelle nebbie calde di Belzagor, molti incontri belli e orrendi attendono Gundersen, prima che egli possa osservare il mistico rituale della rinascita dei Nildoror, una cerimonia arcana che pochi terrestri hanno potuto vedere e a cui nessuno è sopravvissuto per riferirne.

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Nessuno parlava. Marciarono per forse un’ora, finché la schiena di Gundersen non fu piegata, e i piedi insensibili. Il terreno saliva impercettibilmente; l’aria sembrava farsi sempre più sottile; la temperatura si abbassò bruscamente, mentre il giorno finiva. La triste coltre di nebbia che avvolgeva ogni cosa, infinita, mise a dura prova il morale di Gundersen. Quando aveva visto la parete di nebbia, dall’esterno, scintillante sotto il sole, l’aveva affascinato ed eccitato; ma una volta dentro non lo divertiva affatto. Luce e calore erano spariti dall’universo. Non poteva neppure scorgere la grande montagna rosa.

Avanzava come un automa, talvolta costretto perfino a correre per non perdere gli altri. Na-sinisul avanzava a passo veloce, che i nildor non avevano difficoltà a tenere, ma che per Gundersen era ai limiti delle possibilità. Si vergognava per il rumore dei propri ansiti e grugniti, anche se nessun altro pareva farci caso. Il suo respiro si condensava in nuvolette davanti alla faccia, nebbia entro nebbia. Voleva disperatamente riposarsi. Ma non voleva chiedere agli altri di fermarsi per farlo riposare. Era il loro pellegrinaggio; lui era solo un ospite autoinvitatosi.

Un cupo tramonto cominciò a scendere. Il grigio divenne ancora più grigio, e la pallida traccia di luce solare diminuì. La visibilità divenne quasi zero. L’aria si fece alquanto fredda. Gundersen, vestito per la zona della giungla, rabbrividì. Qualcosa, che non gli era mai apparso importante, adesso lo turbò: l’alienità dell’atmosfera. L’aria di Belzagor, non solo nella regione delle nebbie, ma in tutte le regioni, non era composta come quella terrestre, poiché c’era un po’ più di anidride carbonica e un po’ meno di ossigeno; e le impurità residue erano anch’esse diverse. Ma soltanto un sistema olfattivo altamente sensibile avrebbe notato la differenza. Gundersen, condizionato all’aria di Belzagor dagli anni di servizio svolti sul pianeta, non se ne rendeva certamente conto. Ma adesso sì. Le sue narici gli comunicarono un sinistro sentore metallico; il fondo della gola gli sembrava ricoperto di nera sporcizia. Sapeva che si trattava di un’impressione prodotta dalla stanchezza. E tuttavia si accorse di aver ridotto per qualche minuto la respirazione, come se fosse più sicuro lasciar entrare nei suoi polmoni il meno possibile della pericolosa sostanza.

Non cessò di preoccuparsi dell’atmosfera e di altri fastidi fino al momento in cui si rese conto di essere solo.

I nildor erano spariti. E così pure Na-sinisul. La nebbia avvolgeva ogni cosa. Sbigottito, Gundersen spostò all’indietro il nastro della sua memoria e vide che doveva essere rimasto separato dai suoi compagni da parecchi minuti, senza dare particolare peso alla cosa. Ormai potevano essere molto avanti a lui, su qualche altra strada.

Non gridò.

Si abbandonò dapprima all’inevitabile, e si lasciò cadere sulle ginocchia per riposare. Affondò la faccia fra le mani, poi appoggiò le nocche sulla terra fredda e lasciò dondolare la testa, inalando l’aria. Sarebbe stato facile stendersi completamente e perdere coscienza. Forse l’avrebbero trovato la mattina seguente, addormentato. Oppure congelato. Fece uno sforzo per alzarsi, e ci riuscì al terzo tentativo. — Srin’gahar? — disse. Lo sussurrò, piuttosto, in un intimo appello di aiuto.

La testa che gli girava per la spossatezza, corse avanti, incespicando, scivolando, urtando alberi, intrappolando i piedi nel sottobosco. Vide alla sua sinistra quello che era senza dubbio un nildor, ma quando toccò i suoi fianchi li trovò umidi e gelidi, e si rese conto che era solo un masso. Si staccò violentemente da esso. Appena più avanti, si presentò una fila di massicce forme: i nildor in marcia? — Aspettate! — gridò, e corse, e provò come una scossa alle gambe immergendosi nelle gelide acque di un ruscello. Cadde nell’acqua, sulle mani e sulle ginocchia. Strisciò con la forza della disperazione fino alla riva opposta e si lasciò andare a terra, riconoscendo ora le forme scure e indistinte come quelle di alberi bassi e larghi, sferzati dal vento. Va bene, pensò. Mi sono perso. Aspetterò qui fino al mattino. Si accoccolò, cercando di strizzare l’acqua fredda dai vestiti.

Arrivò la notte, nero al posto del grigio. Cercò in cielo le lune e non ne scorse nessuna. Una sete terribile lo consumava, e cercò di tornare al ruscello, ma non riuscì a trovare neppure questo. Le dita gli erano diventate insensibili, le labbra screpolate. Ma scoprì un’isola di calma all’interno della sua pena e si aggrappò a essa, dicendosi che nulla di quanto era accaduto era veramente pericoloso, e che tutto era in qualche maniera necessario.

Dopo un numero sconosciuto di ore, Srin’gahar e Na-sinisul vennero da lui.

Per prima cosa Gundersen sentì il tocco morbido della proboscide di Srin’gahar contro la guancia. Si ritrasse e si appiattì a terra, rilassandosi lentamente quando si rese conto di cosa lo aveva sfiorato. Sopra di lui, il nildor disse: — È qui.

— Vivo? — chiese Na-sinisul, una voce cupa proveniente da una distanza cosmica, avvolta in strati di nebbia.

— Vivo. Bagnato e freddo. Edmundgundersen, riesci ad alzarti?

— Sì. Sto bene, credo. — Si sentiva pieno di vergogna. — Mi avete cercato per tutto questo tempo?

— No — disse tranquillamente Na-sinisul. — Abbiamo proseguito fino al villaggio. Poi abbiamo discusso della tua assenza. Non sapevamo se ti eri perso o ti eri allontanato volontariamente. Poi Srin’gahar e io siamo tornati. Volevi abbandonarci?

— Mi sono perso — disse tristemente Gundersen.

Neppure ora gli venne permesso di montare sul nildor. Procedette faticosamente fra Srin’gahar e Na-sinisul, afferrando la spessa pelliccia del sulidor o appoggiandosi all’anca liscia del nildor ogni volta che sentiva venir meno le forze, o trovava difficoltà a camminare nel buio assoluto. Dopo un tempo indefinito, delle luci apparvero, un pallido bagliore di lanterne che filtrava latteo attraverso la nebbia nera. Confusamente Gundersen vide le squallide capanne di un villaggio sulidoror. Senza attendere l’invito, si infilò nella più vicina delle strutture di legno. Aveva le pareti dritte, un odore di muffa, e festoni di fiori secchi e fasci di pelli di animali appese alle travi. Parecchi sulidoror seduti lo guardarono senza alcuna traccia di interesse. Gundersen si scaldò e asciugò i vestiti; qualcuno gli portò una ciotola di zuppa dolce e densa, e poco dopo gli vennero offerte strisce di carne secca, difficili da masticare ma straordinariamente saporite.

Dozzine di sulidoror andavano e venivano. Una volta, quando la tenda che chiudeva la porta rimase aperta, scorse i suoi nildor seduti appena fuori. Un animaletto dal muso feroce, color bianco nebbia e rugoso, gli si avvicinò e lo esaminò con diffidenza: qualche bestia del nord, che i sulidoror tenevano come animale domestico, pensò Gundersen. La creatura mordicchiò gli abiti ancora umidi ed emise un verso stridulo. Le sue orecchie pelose si contrassero; le zampine dalle dita sottili esplorarono la manica; la lunga coda prensile si avvolgeva e svolgeva. Poi balzò in grembo a Gundersen, gli afferrò un braccio con zampe veloci e gli addentò la carne. Il morso non fu più doloroso di quello di una zanzara, ma Gundersen si chiese quale tremenda infezione aliena avrebbe potuto essersi preso. Tuttavia non fece alcun movimento per allontanare l’animaletto. D’improvviso una grande zampa di sulidor discese, con gli artigli ritratti, e scaraventò l’animale dall’altra parte della capanna. La forma massiccia di Na-sinisul si accoccolò accanto a Gundersen; l’animale scacciato squittì di rabbia in un angolo lontano.

Na-sinisul disse: — Il munzor ti ha morso?

— Non profondamente. È pericoloso?

— Non ti verrà alcun male — disse il sulidor. — Puniremo l’animale.

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