Robert Silverberg - Mutazione

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Belzagor: un mondo misterioso, un pianeta preistorico immerso in un clima tropicale di vapori fumanti e di giungle intricate e abitato dai Nildoror, una razza indigena di esseri intelligenti simili ad elefanti, asserviti e schiavizzati dai terrestri durante i giorni dell’imperialismo interstellare, ma ora finalmente di nuovo liberi. Mentre i Nildoror attendono pazientemente la partenza delle ultime colonie umane, Edmund Gundersen, un tempo agente della Compagnia che aveva sottomesso gli abitanti del pianeta, e detentore del potere di vita e di morte, ritorna su questo strano mondo spinto da un intimo senso di colpa e dal desiderio di rivedere la bella Seena, da lui abbandonata dieci anni prima. Ma durante l’avventuroso pellegrinaggio nelle nebbie calde di Belzagor, molti incontri belli e orrendi attendono Gundersen, prima che egli possa osservare il mistico rituale della rinascita dei Nildoror, una cerimonia arcana che pochi terrestri hanno potuto vedere e a cui nessuno è sopravvissuto per riferirne.

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— Da quanto tempo sei in queste condizioni? — chiese Gundersen.

— Due mesi. Tre. Non so. Il tempo qui si scioglie, Gundy. Ma non c’è possibilità di ritorno per me, adesso. Qui mi fermo. È la fine.

Gundersen si inginocchiò accanto al giaciglio del malato. — Senti male? Posso darti qualcosa?

— Nessun male — disse Cullen. — Nessuna medicina. È la fine.

— Cos’hai? — chiese Gundersen, pensando a Dykstra e alla sua donna, divorati da larve aliene in una pozza di fanghiglia, pensando a Kurtz, sofferente e trasfigurato alle Cascate di Shangri-la, pensando al racconto di Seena su Gio Salamone trasformato in cristalli. — Una malattia indigena? Qualcosa che hai contratto qui?

— Niente di esotico — disse Cullen. — Penso che si tratti della vecchia corruzione interna, dell’antico nemico. Il cancro, Gundy. Il cancro. All’intestino. Le tenaglie del cancro sono dentro le mie budella.

— Allora soffri?

— No — disse Cullen. — Il cancro si muove adagio. Un morso qui, un morso là. Ogni giorno resta un po’ meno di me. Certi giorni ho la sensazione che non resti proprio niente di me. Questo è uno dei giorni buoni.

— Ascolta — disse Gundersen. — Posso portarti lungo il fiume, fino alla stazione di Seena nel giro di una settimana. Lei deve avere un kit medico, un tubetto di anticancro. Non sei così malconcio da non poter bloccare il male, se ci muoviamo in fretta; poi potremo mandarti sulla Terra per un rinnovamento molecolare, e…

— No. Lascia perdere.

— Non essere assurdo! Non viviamo nel Medio Evo, Ced. Anche se hai il cancro, non è una buona ragione per startene steso in una capanna puzzolente, ad aspettare la morte. I sulidoror ti possono preparare una barella in cinque minuti. Ci penso io. Poi…

— Non arriverei mai da Seena, e tu lo sai — disse a bassa voce Cullen. — I nildor mi prenderebbero non appena fuori del paese delle nebbie. Lo sai, Gundy. Tu devi saperlo.

— Be’…

— Non ho l’energia per dedicarmi ai loro giochi. Tu lo sai, vero, che io sono l’uomo più ricercato su questo pianeta?

— Immagino sia così.

— Sei stato mandato qui per prendermi?

— I nildor mi hanno chiesto di riportarti indietro — ammise Gundersen. — Ho dovuto acconsentire, per poter ottenere il permesso di venire qui.

— Naturalmente. — Con amarezza.

— Ma ho posto come condizione che non ti avrei riportato con me se non di tua volontà — disse Gundersen. — Assieme a certe altre condizioni. Senti, Ced, non sono qui in veste di Giuda. Viaggio per ragioni mie, e venire da te è stata una cosa a margine. Ma voglio aiutarti. Lascia che ti porti da Seena, così potrai avere le cure che…

— Ti ho detto — l’interruppe Cullen — che i nildor mi prenderebbero alla prima occasione.

— Anche se sapessero che sei mortalmente ammalato, e che ti porto alle cascate per essere curato?

— Specialmente in questo caso. Non vedono l’ora di salvarmi l’anima, adesso che sto morendo. Non gli darò questa soddisfazione, Gundy. Rimarrò qui, al sicuro, dove non possono raggiungermi, e aspetterò che il cancro la finisca con me. Non ci vorrà molto. Due giorni, tre, una settimana, magari questa notte stessa. Apprezzo il tuo desiderio di aiutarmi, ma non vengo.

— Se ottenessi la promessa dei nildor di lasciarti stare fino a quando non fossi stato curato…

— Non verrò. Dovresti obbligarmi con la forza. E questo va oltre la tua promessa ai nildor, no? — Cullen sorrise per la prima volta dopo molti minuti. — C’è una fiasca di vino, in quell’angolo. Sii gentile…

Gundersen andò a prenderla. Dovette passare attorno a parecchi sulidoror. Il suo colloquio con Cullen era stato così intenso, così privato, che si era dimenticato che la capanna era piena di sulidoror: le sue due guide, le guardie di Cullen, e almeno una mezza dozzina di altri. Prese il vino e lo portò al giaciglio. Cullen, la mano tremante, riuscì lo stesso a non rovesciarne una goccia. Quando ne ebbe bevuto abbastanza, l’offrì a Gundersen, chiedendogli di bere con tanta insistenza che Gundersen non poté fare a meno di accettare. Il vino era caldo e dolce.

— Siamo d’accordo — disse Cullen — che non farai alcun tentativo di portarmi via da questo villaggio? Lo so che non penseresti mai di consegnarmi ai nildor. Ma potresti decidere di portarmi via per salvarmi la vita. Non fare neppure questo, perché l’effetto sarebbe il medesimo: i nildor mi prenderebbero. D’accordo?

Gundersen rimase un po’ in silenzio. — D’accordo — disse alla fine.

Cullen parve sollevato. Si abbandonò sul giaciglio, la faccia verso la parete, e disse: — Vorrei che non mi avessi fatto sprecare tante energie con questo argomento. Abbiamo tante altre cose di cui parlare. E adesso sono senza forze.

— Tornerò più tardi. Riposati adesso.

— No. Resta qui. Parlami. Dimmi dove sei stato in tutti questi anni, perché sei tornato, chi hai visto, cosa hai fatto. Raccontami tutto. Riposerò mentre ti ascolto. E dopo… dopo…

La voce di Cullen si spense. Parve a Gundersen che avesse perso conoscenza, o forse si fosse semplicemente addormentato. I suoi occhi erano chiusi, il respiro lento e faticoso. Gundersen rimase in silenzio. Passeggiò a disagio nella capanna, osservando le pelli appese alle pareti, il rozzo mobilio, i resti di cibo. I sulidoror lo ignorarono. Adesso ce n’erano otto nella capanna, che si tenevano a una certa distanza dall’uomo morente, eppure concentravano tutta la loro attenzione su di lui. Per un momento Gundersen fu irritato dalla presenza di quei giganteschi animali a due gambe. Quelle creature d’incubo con zanne, artigli, grosse code, e nasi penzolanti, che andavano e venivano come se lui fosse meno di niente per loro. Bevve dell’altro vino, anche se trovava il suo aroma spiacevole.

Cullen, con gli occhi ancora chiusi, disse: — Sto aspettando. Racconta.

Gundersen cominciò a parlare. Parlò dei suoi otto anni sulla Terra, compendiandoli in sei brevi frasi. Parlò dell’inquietudine che l’aveva tormentato sulla Terra, del suo nebuloso e sconcertante impulso a tornare su Belzagor, nella speranza di trovare un nuovo senso per la sua vita, adesso che aveva perso il punto di riferimento che era sempre stato per lui la Compagnia. Parlò del suo viaggio attraverso la foresta, fino all’accampamento accanto al lago, e di come aveva danzato fra i nildor, e di come gli fosse stata estorta la promessa di riportare (a certe condizioni) Cullen. Parlò di Dykstra e della sua donna, nella stazione in rovina, emendando in qualche maniera il racconto, per rispetto della condizione di Cullen, anche se sospettava che quella carità fosse inutile. Parlò di Seena e della Notte delle Cinque Lune. Parlò di Kurtz, e di come era stato trasformato dalla rinascita. Parlò del suo pellegrinaggio nel paese delle nebbie.

Fu certo almeno tre volte che Cullen si fosse addormentato, e in una occasione gli parve che il respiro dell’uomo fosse cessato del tutto. Ma ogni volta che Gundersen si era interrotto, Cullen gli aveva fornito una qualche indicazione (una contrazione della bocca, un movimento delle dita) che doveva proseguire. Alla fine, quando a Gundersen non rimaneva più niente da dire, rimase a lungo in silenzio, aspettando qualche nuovo segno da Cullen. E alla fine, debolmente, Cullen disse: — E allora?

— Allora sono venuto qui.

— E dopo dove andrai?

— Alla montagna della rinascita — disse Gundersen.

Gli occhi di Cullen si aprirono. Con un segno della testa chiese che gli venisse alzato il cuscino, e si mise a sedere, afferrando con le dita la coperta. — Perché vuoi andarci? — chiese.

— Per scoprire cosa sia la rinascita.

— Hai visto Kurtz?

— Sì.

— Anche lui voleva scoprire cos’è la rinascita — disse Cullen. — Conosceva già il meccanismo, ma voleva sapere anche cosa fosse dentro. Voleva provarla di persona. Non era solo curiosità, naturalmente. Aveva dei problemi spirituali. Corteggiava l’autoimmolazione perché si era persuaso di dover espiare tutta la sua vita. Ed era anche vero. Così andò in cerca della rinascita. I sulidoror lo accontentarono. Be’, guarda come ne è venuto fuori. Io l’ho visto giusto prima di venire qui.

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