Poi la signora Christopher disse: — Poi cosa è successo?
Gundersen alzò gli occhi, sbattendo le palpebre. Gli sembrava di aver detto tutto.
— Non è successo niente, poi — disse. — Il colmo dell’inondazione si ritirò.
— Ma qual è il punto della storia?
Avrebbe voluto tirarle in faccia il granchio vuoto, su quel sorrisetto teso. — Il punto? — disse. — Il punto? Be’… — Si sentiva girare la testa. Disse: — Sette esseri intelligenti erano in viaggio per compiere il rito più sacro della loro religione, e sotto la minaccia di morte io li ho obbligati a lavorare per salvare beni che non significavano nulla per loro, e loro sono venuti a trasportare tronchi per me. Non è evidente il punto? Chi era spiritualmente superiore? Quando si tratta una creatura razionale e autonoma come se fosse un semplice animale, cosa si diventa?
— Ma era un’emergenza — disse Watson. — Lei aveva bisogno di tutto l’aiuto possibile. Senza dubbio altre considerazioni potevano essere messe da parte in un momento come quello. Sono arrivati con nove giorni di ritardo alla loro rinascita: cosa c’è di tanto grave?
Gundersen disse con voce vuota: — Un nildor va alla rinascita solo quando il tempo per lui è arrivato, e non so dirvi come fa a saperlo, ma forse è una questione astrologica, che ha a che fare con la congiunzione delle lune. Un nildor deve arrivare al luogo della rinascita nel momento propizio, e se non arriva in tempo, non rinasce. Quei sette nildor erano già in ritardo, perché le piogge torrenziali avevano distrutto le strade, a sud. I nove giorni che li trattenni resero il ritardo irrecuperabile. Quando ebbero finito di costruire la diga per me, si limitarono a tornarsene indietro alla loro tribù. Non compresi il perché. Fu soltanto molto più tardi che seppi che per colpa mia avevano perso la loro occasione di rinascita, e che avrebbero dovuto aspettare dieci o vent’anni prima di poter andare di nuovo. O forse non avrebbero mai più avuto un’altra occasione. — Gundersen non aveva più voglia di parlare. Si sentiva la gola secca. Le tempie gli pulsavano dolorosamente. Pensò: per punirmi dovrei buttarmi nel lago bollente. Si alzò rigidamente in piedi, e nel farlo si accorse che Credevo era tornato, e lo aspettava immobile, a qualche centinaio di metri di distanza, sotto un gigantesco albero di fiorispada.
Disse ai turisti: — Il punto è che i nildor hanno una religione e hanno un’anima, che sono persone, e che se uno accetta l’idea della decolonizzazione, non può avere obiezioni all’abbandono di questo pianeta. Il punto è anche che quando dei terrestri si scontrano con una specie aliena, di solito lo fanno con il massimo dell’incomprensione. Il punto è infine che non sono sorpreso che voi pensiate ai nildor come pensate, perché l’ho fatto anch’io, e ho capito di aver sbagliato quando ormai era troppo tardi, e anche allora non ho capito abbastanza perché mi servisse veramente a qualcosa, e questa è una delle ragioni per cui sono tornato su questo pianeta. E vorrei che ora mi scusaste, perché questo è il momento buono per andarsene, e io me ne devo andare. — Si allontanò rapidamente da loro.
Avvicinandosi a Credevo disse: — Sono pronto a partire.
Il nildor si inginocchiò. Gundersen montò.
— Dov’eri andato? — chiese il terrestre. — Mi ero preoccupato quando sei sparito.
— Ho pensato che era meglio lasciarti solo con i tuoi amici — disse Credevo. — Perché ti sei preoccupato? Ho l’obbligo di portarti sano e salvo fino al paese delle nebbie.
La conformazione della terra era senza dubbio cambiata. Stavano uscendo dal cuore della giungla equatoriale per entrare nell’altopiano che conduceva alla zona delle nebbie. Il clima era ancora tropicale, ma l’umidità non era più così intensa. L’atmosfera, invece di stringere ogni cosa in un costante abbraccio appiccicaticcio, rilasciava periodicamente l’umidità sotto forma di pioggia, e dopo la pioggia l’aria diventava limpida e leggera, finché l’umidità non si rinnovava. Anche la vegetazione era diversa: angolosa, dura, con foglie affilate come lame. Molti alberi avevano un fogliame luminescente, che di notte gettava una fredda luce sulla foresta. C’erano meno rampicanti, e le cime degli alberi non formavano più una coltre continua, che intercettava la maggior parte dei raggi solari. Chiazze di luce brillante screziavano il tappeto della foresta, che talvolta si allargava fino a formare radure e prati. Il suolo, dilavato dalle frequenti piogge, aveva una pallida tinta azzurra, non il nero intenso della giungla. Piccoli animali correvano fra il sottobosco. Con passo più lento si muovevano solenni creature simili a lumache verde-azzurre con mantelli color ebano, che Gundersen riconobbe come funghi mobili degli altopiani: piante che strisciavano da un posto all’altro in cerca di rami caduti o di tronchi spezzati dal fulmine. Sia i nildor che gli uomini trovavano la loro polpa molto delicata.
La sera del terzo giorno di viaggio dal lago bollente, Srin’gahar e Gundersen raggiunsero gli altri quattro nildor. Erano accampati ai piedi di una collina dentellata a forma di mezzaluna, ed evidentemente erano lì da un giorno almeno, a giudicare dalla distruzione che avevano operato sul fogliame tutto intorno. Le proboscidi e i musi, sporchi di succhi luminosi, brillavano intensamente. Insieme a loro c’era un sulidor, di gran lunga il più grosso che Gundersen avesse mai visto, quasi due volte l’altezza di un uomo, con un naso pendulo lungo quanto un avambraccio. Il sulidor era in piedi accanto a un masso incrostato di muschio blu, le gambe larghe e la coda, a mo’ di tripode, che sorreggeva il peso. Occhi stretti sorvegliavano Gundersen da sotto scure arcate sopraccigliali. Le lunghe braccia, terminanti con terrificanti artigli ricurvi, penzolavano in riposo. La pelliccia del sulidor era del colore di bronzo antico, insolitamente spessa.
Una delle candidate per la rinascita, una femmina nildor di nome Luu’khamin, disse a Gundersen: — Il nome del sulidor è Na-sinisul. Desidera parlarti.
— Parli pure.
— Preferisce che tu sappia, prima, che non è un sulidor di tipo ordinario. È uno di coloro che amministra la cerimonia della rinascita, e lo rivedremo quando ci avvicineremo al paese delle nebbie. È un sulidor di rango e di merito, e le sue parole non devono essere prese alla leggera. Lo terrai a mente, quando lo ascolterai?
— Lo farò. Io non prendo alla leggera le parole di nessuno, su questo mondo, ma lo ascolterò con attenzione al di là di ogni dubbio. Che parli.
Il sulidor avanzò di qualche passo e ancora una volta si piantò fermamente sui piedi forniti di sproni, infilandoli a fondo nel suolo elastico. Quando parlò, era in un nildororu con un forte accento del nord: profondo, lento, preciso.
— Sono stato in viaggio — disse Na-sinisul — fino al Mare di Polvere, e ora sto tornando alla mia terra per aiutare nella preparazione dell’evento della rinascita, a cui parteciperanno questi cinque viaggiatori. La mia presenza qui è del tutto casuale. Comprendi che io non sono in questo luogo per qualche particolare proposito che riguardi te o i tuoi compagni?
— Comprendo — disse Gundersen, stupefatto dal modo preciso e enfatico di parlare del sulidor. Aveva conosciuto i sulidoror solo come figure scure, selvagge, dall’aspetto feroce, nascoste in misteriose radure.
Na-sinisul proseguì: — Passando qui vicino, ieri, sono capitato per caso sul luogo di una vecchia stazione della vostra Compagnia. Sempre per caso, ho voluto dare un’occhiata dentro, anche se non erano fatti miei entrare. Dentro ho visto due terrestri, i cui corpi avevano cessato di servirli. Erano incapaci di muoversi, e riuscivano appena a parlare. Mi hanno chiesto di farli partire da questo mondo, ma non potevo fare una cosa del genere di mia autorità. Perciò ti chiedo di seguirmi fino a questa stazione e di darmi istruzioni. Ho poco tempo, e deve essere fatto subito.
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