— Quanto è lontana?
— Potremmo essere di nuovo qui prima del sorgere della terza luna.
Gundersen disse a Srin’gahar: — Non ricordo che esistesse una stazione della Compagnia, qui. Dovrebbe essercene una a un paio di giorni di cammino verso nord, ma…
— Questo è il luogo dove il cibo che striscia veniva raccolto e spedito lungo il fiume — disse il nildor.
— Qui? — Gundersen alzò le spalle. — Si vede che ho perso di nuovo l’orientamento. Va bene, andrò. — A Na-sinisul disse: — Guidami, ti seguo.
Il sulidor si mosse veloce attraverso la foresta luminosa, e Gundersen, sopra Srin’gahar, lo seguì da vicino. La strada sembrava in discesa, e l’aria si fece calda e scura. Anche il paesaggio cambiò: gli alberi qui possedevano radici aeree che si curvavano verso l’alto come scarni gomiti, e i sottili viticci che uscivano dalle radici emettevano una vivida luminescenza verde. Il suolo era friabile e roccioso. Gundersen poteva sentirlo scricchiolare sotto i passi di Srin’gahar. Degli uccelli erano appollaiati su molte radici. Erano creature simili a gufi che sembravano prive di ogni colore; alcune erano bianche, altre nere, alcune screziate di bianco e di nero. Non riusciva a capire se fosse il loro vero mantello, o se la luminescenza della foresta li privasse di colori. Una fragranza nauseante proveniva da grandi e pallidi fiori parassitari che crescevano sui tronchi degli alberi.
Accanto a un affioramento di roccia gialla, corrosa dalle intemperie, c’erano i resti della stazione. Sembrava ancora più diroccata della stazione dei serpenti: la cupola del soffitto era crollata e spire di saprofite dagli steli robusti avevano ricoperto le pareti, nutrendosi forse dei prodotti di decomposizione che la pioggia erodeva dalle lastre di plastica. Srin’gahar fece smontare Gundersen. Il terrestre esitò, all’ingresso dell’edificio, aspettando che il sulidor prendesse la guida. Una sottile pioggia calda cominciò a cadere; l’odore della foresta cambiò immediatamente, facendosi da acre dolce. Ma era la dolcezza della decomposizione.
— I terrestri sono dentro — disse Na-sinisul. — Puoi entrare. Attendo tue istruzioni.
Gundersen entrò nell’edificio. L’odore di putredine era ancora più forte qui, concentrato forse dalla curva del tetto sfondato. L’umidità avvolgeva tutto. Si chiese quale sorte di virulente spore inalasse ad ogni respiro. Qualcosa gocciolava nel buio, producendo un ticchettio forte, che si sovrapponeva a quello più leggero della pioggia che entrava dalle falle del tetto. Per farsi luce Gundersen estrasse la torcia a fusione. Il chiarore bianco e caldo si sparse per la stazione. Subito sentì uno sbattere di ali intorno alla faccia, mentre qualche creatura termotropica veniva svegliata e attratta dal calore della torcia. Gundersen la cacciò via; una sostanza appiccicosa gli rimase attaccata alla punta delle dita.
Dov’erano i terrestri?
Fece cautamente il giro dell’edificio. Lo ricordava vagamente, adesso… una delle innumerevoli stazioni nella giungla che un tempo la Compagnia aveva sparso per il Mondo di Holman. Il pavimento era crepato e deformato, e lo costringeva a procedere con difficoltà. I funghi mobili strisciavano dappertutto, divorando la feccia che ricopriva tutte le superfici interne dell’edificio e lasciandosi dietro dei solchi luccicanti. Gundersen doveva fare attenzione a dove metteva i piedi, per non calpestare le creature, e non sempre ci riusciva. Raggiunse un punto dove l’edificio si allargava. Mosse intorno il raggio della torcia, e scorse un molo annerito che si protendeva sulla riva di un rapido fiume. Sì, ora ricordava. I funghi lì venivano raccolti in balle e spediti lungo il fiume, verso il mercato. Ma i barconi della Compagnia non si fermavano più al molo, e le gustose lumache pallide si aggiravano tranquillamente sui relitti di mobili e apparecchiature coperti di muschio.
— C’è nessuno? — chiamò Gundersen. — C’è nessuno?
In risposta ottenne un lamento. Incespicando e scivolando nella penombra, combattendo contro un’ondata di nausea, avanzò in un labirinto di invisibili ostacoli. Raggiunse la fonte del suono gocciolante. Qualcosa di un rosso brillante, a forma di cesto e grande circa come il petto di un uomo, era appeso in alto su una parete, perpendicolare al pavimento. Attraverso grossi pori della sua superficie spugnosa trasudava un liquido nero e denso, in continue gocce oleose. Quando il raggio della torcia di Gundersen la toccò, la trasudazione crebbe, trasformandosi quasi in un flusso continuo di liquido sebaceo. Quando scostò il raggio, il flusso rallentò, pur restando intenso.
In quel punto il pavimento scendeva, cosicché il liquido trasudante dal cesto spugnoso si raccoglieva sul lato opposto della stanza. Qui Gundersen trovò i terrestri. Giacevano fianco a fianco su un basso materasso; il fluido della cosa gocciolante aveva formato una pozza scura intorno a loro, coprendo completamente il materasso e lambendo i loro corpi. Uno dei terrestri, la testa che penzolava da una parte, aveva la faccia completamente immersa nel fluido. Dalla bocca dell’altro giungevano i lamenti.
Erano entrambi nudi. Un uomo e una donna, anche se Gundersen ebbe qualche difficoltà a capirlo, inizialmente: erano entrambi talmente raggrinziti ed emaciati che le caratteristiche sessuali sparivano. Non avevano peli, neppure sopracciglia, e le ossa sporgevano dalla pelle simile a pergamena. Entrambi tenevano gli occhi aperti, ma fissi come se non vedessero, senza un battito di ciglia, vitrei. Le labbra lasciavano scoperti i denti. Alghe grigiastre crescevano fra i solchi della pelle, e i funghi mobili passavano sui loro corpi, nutrendosi di esse. Con un gesto automatico e veloce di disgusto, Gundersen strappò due delle creature simili a lumache dai seni vuoti della donna. Lei si mosse; emise un lamento. In lingua nildor mormorò: — È finita? — La sua voce era come un flauto suonato da una stanca brezza del deserto.
Parlando in inglese Gundersen disse: — Chi siete? Cosa è successo?
Non ottenne risposta. Un fungoide le passò sulla bocca, e lui lo gettò via. Le toccò la guancia. Ci fu un suono raschiante mentre la sua mano le passava sulla pelle; era come accarezzare della carta rigida. Cercando di ricordarla, Gundersen immaginò capelli scuri sul cranio nudo, le diede sopracciglia inarcate, vide le sue guance piene e la bocca sorridente. Ma non trovò niente; o l’aveva dimenticata, o non l’aveva mai conosciuta, o era irriconoscibile nella sua condizione presente.
— Finirà presto? — chiese ancora una volta, in nildororu.
Gundersen si rivolse al compagno. Delicatamente, temendo che il collo fragile potesse spezzarsi, sollevò la testa dell’uomo dalla pozza di fluido. Sembrava che l’avesse respirato; gli colava dalla bocca e dal naso, e dopo un momento mostrò chiari sintomi che non era in grado di respirare l’aria normale. Gundersen gli lasciò scivolare di nuovo la faccia nella pozza. In quel breve momento aveva riconosciuto l’uomo come un certo Harold (o Henry?) Dykstra, che aveva incontrato qualche volta ai vecchi tempi.
La donna sconosciuta stava cercando di muovere un braccio. Le mancava la forza di sollevarlo. Quei due erano come fantasmi viventi, come zombie, invischiati nel loro liquido appiccicoso e del tutto inermi. Nella lingua dei nildor disse: — Da quanto tempo siete così?
— Da sempre — sussurrò lei.
— Chi sei?
— Non… ricordo. Io… aspetto.
— Cosa?
— La fine.
— Ascolta — disse lui — io sono Edmund Gundersen, ero capo settore una volta. Voglio aiutarvi.
— Uccidimi per prima. Poi lui.
— Vi porterò via di qui, allo spazioporto. Partirete per la Terra fra una settimana o dieci giorni, poi…
— No… ti prego…
— Cosa vi è successo?
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