— Lo accoglierei come un fratello.
— Saresti forse infelice nel dover constatare il vuoto nella mente del tuo fratello — disse Gundersen. — Vedresti un essere formato a tua immagine, ma non riusciresti a raggiungere la sua anima.
— Portami un elefante, amico del mio viaggio, e io sarò il giudice della sua anima — disse Credevo. — Ma dimmi un’ultima cosa, poi non ti disturberò più: quando la tua gente ci chiama elefanti, è perché ci ritiene semplici animali, vero? Gli elefanti sono “grossi semplici animali”, sono le tue parole. È così che ci vedono i visitatori della Terra?
— Si riferiscono solo alla somiglianza nella forma fra i nildor e gli elefanti. È una cosa superficiale. Vogliono dire che voi siete come elefanti.
— Vorrei poterlo credere — disse il nildor, e rimase in silenzio, lasciando solo Gundersen con la sua vergogna e la sua colpa. Ai vecchi tempi, non era mai stata sua abitudine discutere la natura dell’intelligenza con le sue cavalcature. Non gli era mai neppure venuto in mente che una simile discussione potesse essere possibile. Adesso avvertiva il risentimento soppresso di Credevo. Elefanti… sì, era così che anche lui aveva visto i nildor. Elefanti intelligenti, forse. Ma sempre elefanti.
In silenzio, seguirono il fiume ribollente verso nord. Poco prima di mezzogiorno raggiunsero la sorgente, un grande lago a forma di tazza incastrato fra una doppia catena di ripide colline. Nuvole di vapore oleoso si alzavano dalla superficie del lago. Alghe termofile striavano le acque, quelle rosa che formavano una schiuma sottile e quasi nascondevano l’intrico di piante più grosse, grigio-azzurre, poco più sotto.
Gundersen avrebbe voluto sostare per esaminare il lago e le sue insolite forme di vita, ma provava una strana riluttanza a chiedere a Credevo di fermarsi. Credevo non era solo la sua cavalcatura, era anche il suo compagno di viaggio; e dire, come un turista: “fermiamoci qui per un po’”, avrebbe potuto rinforzare l’idea del nildor che i terrestri pensavano ancora alla sua gente semplicemente come bestie da soma. Perciò si rassegnò a non vedere lo spettacolo. Non era giusto, si disse, che rallentasse il viaggio di Credevo verso la rinascita soltanto per gratificare la sua curiosità.
Ma mentre si avvicinavano a una curva del lago, si sentì un tale fracasso nel sottobosco, verso est, che l’intera processione di nildor si arrestò per vedere cosa succedeva. A Gundersen sembrava che un dinosauro stesse per sbucare dalla giungla, qualche gigantesco e goffo tirannosauro, inesplicabilmente trasportato nel tempo e nello spazio. Poi, emergendo da una frattura nella fila di colline, un piccolo veicolo tozzo avanzò lentamente sul terreno nudo che fiancheggiava il lago. Gundersen riconobbe lo scarafaggio dell’hotel, che si trascinava dietro un rimorchio assurdo e primitivo, fabbricato con rozze tavole e grosse ruote. Sopra questo sobbalzante e sferragliante rimorchio erano state montate quattro piccole tende, che lo occupavano quasi interamente; accanto alle tende, sopra le ruote, erano accatastati i bagagli, e sul retro, aggrappati a una ringhiera, si guardavano nervosamente intorno gli otto turisti che Gundersen aveva visto per l’ultima volta qualche giorno prima, all’albergo lungo la costa.
Credevo disse: — Ecco alcuni della tua gente. Vorrai parlare con loro.
I turisti, in realtà, erano l’ultima specie che Gundersen desiderava vedere in quel momento. Avrebbe preferito locuste, scorpioni, serpenti velenosi, tirannosauri, rospi, qualsiasi cosa. Era appena uscito da una specie di esperienza mistica fra i nildor, la natura della quale poteva appena comprendere; isolato dalla sua razza, cavalcava verso la terra della rinascita, dibattendo problemi cruciali come la giustizia e l’ingiustizia, la natura dell’intelligenza, il rapporto fra umani e non-umani, lui stesso e il suo passato; soltanto pochi momenti prima era stato costretto a un confronto sgradevole, perfino doloroso, con il passato dalle abili domande di Credevo circa l’anima degli elefanti; ed ecco che di colpo si ritrovava di nuovo fra quegli individui vuoti, triviali, quegli archetipi dei turisti ciechi e ignoranti; e qualsiasi individualità si fosse guadagnato agli occhi del suo compagno nildor svaniva immediatamente, mentre ricadeva nella classe indifferenziata dei terrestri. Quei turisti, una parte della sua mente lo sapeva, non erano affatto vuoti e volgari come li vedeva lui; erano soltanto persone ordinarie, amichevoli, un poco sciocche, sovra-privilegiate, probabilmente esseri umani abbastanza soddisfacenti entro il contesto delle loro vite terrestri, che sembravano figure di cartapesta solo perché erano essenzialmente irrilevanti per il pianeta che avevano scelto di visitare. Ma non era ancora pronto perché Credevo lo perdesse di vista come una persona separata da tutti gli altri terrestri che venivano su Belzagor, e temeva che l’ondata di chiacchiere che sgorgava da quella gente l’avrebbe sommerso e trasformato in uno di loro.
Lo scarafaggio, che faceva uno sforzo evidente per trascinarsi dietro il rimorchio, si arrestò a una decina di metri dal lago. Ne uscì Van Beneker, con un aspetto più sudato e trasandato del solito. — Bene — gridò ai turisti. — Tutti a terra! Daremo un’occhiata a uno dei famosi laghi caldi! — Gundersen, montato in cima alla larga schiena di Credevo, ebbe la tentazione di dire al nildor di proseguire. Gli altri quattro nildor, avendo constatato la causa dei rumori, si erano già messi in moto ed erano quasi fuori vista, all’estremità opposta del lago. Ma decise di rimanere un po’; sapeva che un atteggiamento di snobismo nei confronti della sua specie non gli avrebbe fatto guadagnare alcun credito agli occhi di Credevo.
Van Beneker si voltò verso Gundersen e chiamò: — Buongiorno, signore. Piacere di vederla! Ha fatto buon viaggio?
Le quattro coppie terrestri scesero dal rimorchio. Erano pienamente in carattere, e si comportavano come Gundersen si aspettava secondo il suo crudo giudizio: sembravano annoiati e intossicati, sazi delle meraviglie aliene che avevano già visto. Stein, il proprietario del salone genetico, controllò doverosamente l’apertura della sua macchina fotografica, se la montò sul cappello e fece il solito ologramma a 360 gradi della zona; ma quando la stampa uscì dalla fessura, un momento dopo, non si preoccupò neppure di guardarla. L’atto di fare le foto, non le foto stesse, era la cosa significativa. Watson, il dottore, disse una battuta senza allegria a Christopher, il finanziere, che rispose con una risatina meccanica. Le donne, in disordine e sporche per il viaggio nella giungla, non prestarono la minima attenzione al lago. Due si appoggiarono semplicemente allo scarafaggio, in attesa che venisse loro detto cosa guardare, mentre le altre due, accorgendosi della presenza di Gundersen, presero delle maschere facciali dai loro zaini e se le infilarono sulla testa, per poter almeno presentare l’illusione di un viso adeguatamente truccato all’aitante estraneo.
— Non rimarrò qui a lungo — si sentì promettere Gundersen a Credevo mentre smontava.
Van Beneker gli si avvicinò. — Che viaggio! — esclamò l’ometto. — Che schifosissimo viaggio! Be’, dovrei esserci abituato ormai. Come vanno le cose, signor G?
— Non posso lamentarmi. — Gundersen indicò con un cenno il rimorchio. — Dove ti sei procurato quel trabiccolo infernale?
— L’abbiamo costruito un paio di anni fa, dopo che si è rotto il vecchio furgone. Lo usiamo per portare in giro i turisti quando non riusciamo a trovare nessun portatore nildor.
— Sembra una cosa da diciottesimo secolo.
— Be’, sa signore, da queste parti non ci resta molto in fatto di macchinali moderni. Siamo rimasti senza servomeccanismi e locomotori idraulici. Ma si trovano sempre delle tavole e delle ruote in giro. Ci arrangiamo.
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