Il solo che sembrasse muoversi era Egtverchi; sebbene la sua figura apparisse rimpicciolita come dalla lontananza, egli era tuttavia in scala con la giungla e i suoi gesti sembravano renderlo quasi più reale della scena. Si sarebbe detto che volesse attirare verso di sé Michelis, fuor dell’immobilità della giungla.
Solo la sua voce strideva; era al normale volume di conversazione, e dunque era troppo forte per le sue dimensioni e per quelle dell’ambiente; sembrava infatti così forte che Michelis, assordato, udì appena le ultime parole di Egtverchi. Solo quando questo, inchinatosi ironicamente, scomparve, e la sua voce svanì lasciandosi dietro solo l’onnipresente ronzio degli insetti, solo allora Michelis ne afferrò il significato.
Rimase seduto dove si trovava, stordito. Lasciò passare almeno trenta secondi di pubblicità per i Prodotti Alimentari Bifalco, la ditta che offriva al pubblico le conferenze di Egtverchi, prima di pensare a girare la manopola dell’apparecchio. Gli elettroni in movimento nel complesso fosforescente dello schermo ritornarono agli atomi dai quali erano stati allontanati dal minuscolo scansore de Broglie inserito nello schermo. Gli atomi ripresero le loro identità chimiche, le molecole si raffreddarono e lo schermo ridiventò una riproduzione immobile del quadro di Paul Klee, Capriccio di febbraio. Il principio, Michelis se ne ricordava, era stato concepito come conseguenza del primo articolo che il Conte d’Averoigne aveva fatto pubblicare sotto il nome di «Petard», quando, a diciassette anni, s’era interessato per la prima e l’ultima volta di matematica applicata.
— Che cosa ha voluto dire? — domandò debolmente Liu. — Non riesco più a capirlo. La chiama una dimostrazione, ma che cosa spera di dimostrare in questo modo? È puerile.
— Sì — disse Michelis. Per il momento non fu capace di pensare ad altro da dire. Aveva bisogno di riprendersi; perdeva il suo sangue freddo sempre più facilmente, da qualche tempo. Era una delle ragioni che lo avevano indotto ad affrettare il matrimonio con Liu: aveva bisogno della calma della donna, perché la sua stava scomparendo.
Ma in quel momento nemmeno la presenza di Liu sembrava giovargli. Perfino il loro appartamento, che in un primo tempo gli aveva dato tanta soddisfazione, gli sembrava ora una specie di trappola. Era un appartamento situato in uno degli ultimi piani di un grattacielo praticamente abbandonato, situato in fondo all’East Side di Manhattan. In origine, Liu aveva avuto un appartamentino nello stesso edificio, e Michelis, una volta abituatosi all’idea, aveva fatto installare entrambi nell’attuale appartamento, facendo leva nei luoghi opportuni. Non era usuale, non era neppure una cosa alla moda, ed erano stati avvertiti ufficialmente che una simile residenza veniva considerata pericolosa: di tanto in tanto, le bande di delinquenti minorili compivano delle incursioni negli edifici di superficie. Ma a quanto pareva non era più una cosa illegale, se una persona aveva il denaro necessario per vivere in quel modo negli slum.
Avendo ormai a disposizione uno spazio maggiore, l’artista che in Liu si nascondeva sotto l’aspetto della scienziata, aveva dato libero corso alla fantasia. Su tavolini minuscoli, si vedevano giardini giapponesi, con autentici alberi Ming e cedri nani. All’altezza dell’occhio, cassette di fiori facevano completamente il giro della stanza, avvolte da un intrico d’edera: vi crescevano piante della gomma, filodendri, zebrine pendule e altre specie rampicanti, con o senza fiori; dietro ogni cassetta, degli specchi salivano fino al soffitto, interrotti soltanto dalla raffinata serenità della riproduzione di Klee, che mascherava il televisore a 3D.
Il quadro, fatto quasi completamente di angoli staccati e di glifi che assomigliavano ai simboli della matematica, era un’oasi asciutta che era costata a Liu un supplemento di prezzo: le «coperture» di serie degli apparecchi televisivi erano prevalentemente van Gogh. Poiché i tubi per l’illuminazione erano nascosti dietro i vasi, la stanza dava un’impressione di esuberanza extraterrestre tenuta sotto controllo solo grazie ai massimi sforzi.
— Ho capito che cosa volesse dire — osservò finalmente Michelis. — Ma non so bene come esprimerlo. Lasciami pensarci un minuto: perché intanto non prepari la cena? Sarà meglio mangiare un po’ prestino, dato che potremmo avere visite, stasera.
— Visite? Ma… D’accordo, Mike.
Michelis si diresse fino alla parete di vetro e guardò nell’interno della veranda. C’erano tutte le piante da fiori di Liu, un vero giardino, che doveva restare separato dall’appartamento, perché Liu non soltanto era una giardiniera appassionata, ma allevava anche api. Ce n’era infatti una colonia, che produceva miele d’una specie singolare, esotica, grazie alla varietà di fiori che Liu aveva messo a loro disposizione. Era un miele straordinario, sempre diverso, a volte troppo amaro per mangiarlo, salvo che a minuscoli assaggi, in punta di coltello, come senape cinese, a volte contenente un forte tocco di oppio a causa dei papaveri ibridi che dondolavano come una squadra di soldati al limitare della veranda, a volte dolce da nauseare e insipido finché, con qualche sua piccola alchimia, Liu lo trasformava in un liquore che montava alla testa come il soffio del Giardino di Allah. Le api che lo facevano erano delle mostruosità tetraploidi, grosse come colibrì, con un carattere altrettanto irascibile quanto quello al quale si stava avvicinando lo stesso Michelis; ne sarebbero bastate cinque o sei per uccidere un uomo. Fortunatamente, volavano male in mezzo al vento che spirava sempre a quell’altezza, e potevano alimentarsi soltanto nel giardino di Liu: altrimenti non le sarebbe stato permesso di tenerle in un giardino pensile, aperto, in mezzo alla città. Michelis, in un primo tempo, si era molto allarmato per la presenza delle api, ma poi aveva finito per lasciarsi affascinare dalla loro intelligenza, che era straordinaria come la loro dimensione e la loro ferocia.
— Accidenti! — disse improvvisamente Liu.
— Che c’è?
— Ancora frittatine. È la seconda volta questa settimana che sbaglio numero nell’ordinare il pasto.
Tanto l’imprecazione quanto l’errore erano due cose eccezionali, da parte di Liu. Michelis ne provò come un rimorso, un miscuglio di pietà e di senso di colpa. Liu stava cambiando; non era mai stata così distratta, prima. Che ne fosse lui il responsabile?
— Oh, va bene lo stesso. Non importa. Mangiamo.
— Come vuoi.
Mangiarono in silenzio. Michelis sentiva che Liu avrebbe voluto fargli delle domande. Il chimico non avrebbe mai dovuto immischiare sua moglie in tutto quell’imbroglio. D’altra parte, sarebbe stato impossibile. Liu era implicata nella faccenda di Egtverchi quanto lui. E Michelis non sapeva più che pensare; le parole di Egtverchi lo avevano sconvolto al punto di renderlo incapace di pensiero logico. Sarebbe ricaduto nel brutto compromesso abituale, che consisteva nel non dire niente a Liu. No, anche questo stava ormai diventando impossibile.
Eppure la sciocchezza compiuta dal Lithiano era stata piuttosto grossolana: puerile, come aveva detto Liu. Egtverchi era stato spinto a sorpassare ogni misura, a mostrarsi riottoso, irresponsabile, e l’aveva fatto fino in fondo. Non solo aveva esplicitamente dichiarato il suo disprezzo per ogni istituzione e costumanza stabilite, ma aveva anche invitato il suo pubblico a mostrare lo stesso disprezzo. Verso la fine della sua trasmissione, poi, aveva perfino insegnato al pubblico come fare: tutti dovevano inviare lettere anonime ingiuriose alla ditta che pagava le sue trasmissioni.
— Basterà una cartolina postale — aveva detto con dolcezza, le grandi mandibole sorridenti. — Purché la missiva sia caustica, ferisca. Se non riuscite a mandar giù quella specie di cemento in polvere che vi vendono per fare la frittata, scrivetelo. Se invece vi va a genio, ma la nostra pubblicità vi fa venire il voltastomaco, dichiaratelo, e senza peli sulla lingua, mi raccomando. Se mi detestate, dite anche questo alla Bifalco, sempre senza ritegno. Vi leggerò le cinque lettere più sgradevoli nel corso della mia prossima trasmissione, fra una settimana. E ricordatevi, non firmate col vostro nome; se proprio vorrete firmare, usate il mio. Buonasera.
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