James Blish - Guerra al grande nulla

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Guerra al grande nulla: краткое содержание, описание и аннотация

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È possibile che gli altri mondi non siano abitati. Ma finora, niente esclude che possano invece ospitare forme di vita, simili o no alla nostra. Questo è un problema che le scoperte della nuova scienza rendono attuale e non più ignorabile, una questione che va considerata sotto tutti gli aspetti. Anche quello religioso. Infatti, fra i doveri della Chiesa c'è quello di mantenersi in linea coi tempi; e il punto a cui è arrivata la giovane scienza spaziale ha spinto appunto la Chiesa a interessarsi dell'eventualità che esistano altri pianeti abitati. A questo proposito importanti esponenti del Clero hanno consentito a rispondere alle domande dei giornalisti, e il risultato delle speciali recenti interviste è stato ampiamente pubblicato su autorevoli quotidiani. Il romanzo che presentiamo in questo numero sembra scritto proprio in seguito alle ipotesi formulate da un Padre Gesuita nel corso del colloquio cui abbiamo accennato. E, guarda caso, a protagonista del suo romanzo, James Blish ha scelto un Gesuita. Il tema è ardito, e solo un autore intelligente, obiettivo, e abile come Blish lo poteva affrontare. Ne è uscito il racconto più eccitante che sia mai stato scritto nel campo della fantascienza. Un romanzo che i lettori di Urania non possono ignorare.
Premio Hugo per miglior romanzo in 1959.

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Il rapido entrò nella Stazione Termini con cinque minuti d’anticipo. Ruiz non ebbe difficoltà a trovare un facchino, gli diede la mancia universale di mille lire per portare le sue due valigie, e gli fornì alcune istruzioni. L’italiano del sacerdote era sufficiente, ma piuttosto fuori dell’ordinario; il facchino sorrideva deliziato ogni volta che Ruiz apriva la bocca. L’aveva imparato leggendo, in parte Dante, in parte libretti d’opera, e se anche il suo accento era difettoso, in compenso le sue frasi erano molto fiorite: non poteva chiedere dove fosse il fruttivendolo senza dare l’impressione di volersi gettare nel Tevere se non avesse ottenuto la risposta. — Che albergo? — chiedeva il fattorino ogni tre paròle di Ruiz. — Che albergo?

Comunque, sempre meglio che l’atteggiamento dei francesi, incontrato da Ruiz nel corso di un viaggio a Parigi, quindici anni prima. Ricordava ancora un tassista che si era rifiutato di comprendere la sua richiesta di essere portato al Continental Hotel finché egli non ne aveva scritto il nome su un biglietto, dopo di che l’autista aveva detto, fingendo un’improvvisa comprensione: «Ah, ah? Lee Con-ti-nen-TAL?». Aveva poi scoperto che questo atteggiamento era quasi universale in Francia; i francesi volevano far sapere al forestiero che senza un accento perfetto si è totalmente incomprensibili.

Gli italiani, a quanto pareva, preferivano venire incontro al forestiero a metà strada. Il facchino sorrise alla prosa fiorita di Ruiz, ma lo condusse subito a un’edicola di giornalaio, dove egli poté comprare un settimanale nel quale la proporzione di testo che affiancava le fotografie prometteva un sufficiente resoconto di ciò che Egtverchi aveva detto la settimana prima; poi il facchino lo condusse esattamente all’indirizzo che Ruiz gli aveva chiesto. Ruiz gli raddoppiò subito la mancia : una guida così rapida poteva venire utile, ora che il tempo era poco; forse avrebbe nuovamente incontrato l’uomo.

Il facchino l’aveva condotto alla Casa del Passeggero, che godeva fama di essere la migliore istituzione del suo genere in Italia, la qual cosa, come poi scoprì Ruiz, voleva dire che era la migliore del mondo, perché non ci sono in nessun’altra parte del mondo degli istituti esattamente uguali agli alberghi diurni italiani. Là egli poté lasciare i bagagli, leggere la sua rivista e mangiare qualcosa al caffè, farsi tagliare i capelli e lustrare le scarpe, fare un bagno mentre i suoi abiti venivano stirati, e poi cominciare la lunga serie di telefonate che, sperava, gli avrebbero permesso di passare la notte in un letto: preferibilmente lì vicino, ma comunque in qualsiasi posto di Roma che non fosse il Rifugio.

Sorbendo il caffè, nella poltrona del barbiere, e perfino nella vasca da bagno, aveva avuto il tempo di leggere e rileggere il resoconto della trasmissione televisiva di Egtverchi. Il giornalista italiano non riportava esattamente le parole, per ovvie ragioni (Egtverchi aveva parlato per tredici minuti: il resoconto stenografico avrebbe occupato un’intera pagina) ma aveva riassunto tutti i punti salienti della conversazione del Lithiano, senza trascurare un solo concetto, tanto che Ruiz-Sanchez ne rimase impressionato.

Evidentemente, per la sua risposta, Egtverchi aveva raccolto diverse notizie così come gli erano arrivate via radio e senza un criterio preciso; e se n’era servito per lanciare un brillante attacco estemporaneo alla presunzione e alla simulata moralità dei Terrestri. Il filo conduttore era stato riassunto dal giornalista italiano nella frase dell’Inferno dantesco: «Perché mi scerpi? Non hai tu spirto di pietade alcuno?», nel grido cioè dei Suicidi, che possono parlare solo quando le Arpie li straziano e il sangue scorre. Il tutto rappresentava un’accusa massiccia che, senza giustificare minimamente la condotta di Egtverchi, volgeva in ridicolo il fatto che potesse esistere uomo talmente senza macchia da avere il diritto di scagliare la prima pietra. Evidentemente, il Lithiano aveva assimilato da cima a fondo la violenta opera di Schopenhauer Norme per la discussione.

Il giornale italiano informava inoltre il suo pubblico che quando la compagnia televisiva aveva creduto opportuno sospendere le trasmissioni del signor Egtverchi, ne era stata impedita da una valanga di telefonate, telegrammi e radiogrammi. Ormai la compagnia televisiva, incoraggiata dalla ditta Bifalco, che finanziava il programma televisivo di Egtverchi, diffondeva quasi ogni ora informazione statistiche, comprovanti che le trasmissioni del Lithiano rappresentavano chiaramente un successo spettacolare. «Il signor Egtverchi — continuava il giornale italiano, — è ormai divenuto il collaboratore più prezioso che esista al mondo. Nessuno più dubita ora che il Lithiano verrà incoraggiato a mostrare ancor più chiaramente quegli aspetti del suo personaggio pubblico per i quali era stato prima condannato. Insomma, questa creatura extraterrestre è divenuta di colpo un’autentica miniera d’oro.»

L’articolo era insieme ben scritto ed eccessivamente acceso (combinazione caratteristica di Roma), ma Ruiz, non avendo il testo della trasmissione, doveva prenderlo così com’era. Tuttavia, sia i sunti del giornalista che la passione del suo linguaggio parevano giustificati: anzi, forse l’uomo aveva minimizzato la situazione.

Ma, almeno a Ruiz, parve di sentire direttamente la voce di Egtverchi. L’accento era familiare e perfetto. E la trasmissione era stata rivolta a un pubblico composto per metà di bambini! Era mai esistito veramente, si chiese il Gesuita, un individuo preciso, chiamato Egtverchi? Se sì, era posseduto dal demonio, ma Ruiz non poté crederlo. Non c’era mai stato un vero Egtverchi che il diavolo potesse possedere. Era da cima a fondo il prodotto dell’immaginazione dell’Avversario, come lo era stato Chtexa, come lo era stato l’intero pianeta di Lithia. Già nel simulacro di Egtverchi Egli aveva abbandonato ogni sottigliezza, già osava mostrarsi nudo; sostenendo menzogne, creando discordia, seminando malanni, corrompendo l’infanzia, uccidendo l’amore, sollevando eserciti…

E tutto ciò durante un Anno Santo!

Ruiz-Sanchez rimase come di pietra, con una mano infilata per metà nella tasca della giacca estiva, lo sguardo alzato al soffitto della stanza. Doveva ancora fare due telefonate, nessuna delle quali al generale del suo Ordine, ma ora aveva cambiato idea.

Era stato incapace, per tutto questo tempo, di interpretare quei segni evidenti… o era invece mentecatto come gli eretici hanno fama di essere? Sì, capace di scorgere un Dies irae nel vapore di un bagno pubblico? Armageddon in TV? L’abisso che si spalanca per far uscire un pagliaccio che diverta i bambini?

Non sapeva. Era sicuro soltanto che per quella notte non avrebbe avuto bisogno di un letto; era di pietre che aveva bisogno. Uscì dalla Casa del Passeggero il più rapidamente possibile, lasciandosi dietro tutto quello che possedeva; trovò da solo la strada. La guida indicava una chiesa su un lato di Piazza della Repubblica, presso le Terme di Diocleziano.

La guida non s’era sbagliata, infatti. Eccola là, la chiesa: Santa Maria degli Angeli. Non si fermò sotto il portico a rinfrescarsi, sebbene il sole del tardo pomeriggio scottasse quasi come quello di mezzogiorno. Domani avrebbe fatto molto più caldo… irrimediabilmente più caldo. Varcò in fretta il portale.

Dentro, nella fredda penombra, s’inginocchiò e, in preda a un terrore glaciale, pregò.

Ma, in fin dei conti, poi non gli parve che la preghiera l’avesse molto sollevato.

CAPITOLO QUINDICESIMO

Tutt’intorno a Michelis la giungla sorgeva rappresa in un tumulto di immobilità. Filtrandovi attraverso, la luce indecisa del giorno si tingeva d’un verde cupo e là dove i raggi luminosi colpivano una superficie riflettente, sembravano più penetrarla che esserne riflessi, estendendo la giungla, mediante un’inversione delle immagini, in ogni direzione dell’universo. L’illusione era resa doppiamente reale dalla calma assoluta, priva d’ogni alito di vento.

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