Clifford Simak - Pescatore di stelle

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L’Uomo vuole raggiungere le Stelle, ma non con mezzi tecnici comuni o strabilianti astronavi, bensì mediante una forma superiore di telecinetica, capace di proiettare la mente e quindi il corpo negli spazi infiniti. Il lettore compirà con la fantasia un viaggio che contempla mete raggiungibili soltanto dopo centinaia o migliaia di anni-luce, addentrandosinei misteri della più straordinaria categoria di mutanti, superando i pericoli più insidiosi dell’incomprensione e dell’odio.

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Lentamente, la collera lo invase, sostituendo lo sbalordimento. La collera di essere stato giocato, di essere stato messo in trappola da uno come Freddy.

«Adesso usciremo insieme,» disse Freddy, «da quei buoni amici che siamo. Ti riporterò indietro, a fare quattro chiacchiere con Rand. Niente storie, niente risse, da veri gentiluomini. Non vogliamo fare niente che potrebbe mettere in imbarazzo Charline.»

«No,» disse Blaine. «No, naturalmente, non vogliamo fare niente del genere.»

E la sua mente lavorava precipitosamente, cercando un modo di uscirne, una scappatoia, una cosa qualsiasi che lo tirasse fuori da quella situazione. Qualunque cosa dovesse succedere, non voleva tornare indietro insieme a Freddy.

Sentì l’essere rosa agitarsi, come se si accingesse ad uscire dalla sua tana.

«No!» urlò Blaine. «No!»

Ma era troppo tardi. Il Rosa era uscito fuori e aveva riempito il suo cervello: e lui era ancora se stesso, ma contemporaneamente era anche qualcun altro. Era due cose nello stesso tempo, ed era accaduto qualcosa di strano e di incomprensibile.

La stanza diventò immobile come la morte, ad eccezione del gemito dell’orologio appeso alla parete. Ed anche questo era strano, perché fino a quel momento, l’orologio non aveva emesso gemiti: aveva emesso ronzii, non gemiti.

Blaine avanzò rapidamente di un passo, e Freddy non si mosse. Se ne stava ritto davanti a lui, con la mano infilata nella tasca della giacca.

Un altro passo, e Freddy si scosse appena appena. I suoi occhi rimasero fissi e sbarrati, senza battiti di ciglia. Ma il suo volto incominciò ad alterarsi, in una smorfia lenta e torturata, e la mano nella tasca si mosse, lievemente, a fatica, come se il braccio e la mano e l’oggetto che la mano stringeva dentro!a tasca si stessero appena ridestando da un sonno profondo.

Ancora un passo, e Blaine gli fu quasi addosso: il suo pugno si avventò come un pistone. La bocca di Freddy si spalancò, lentamente, come se la giuntura della mandibola fosse arrugginita, e le palpebre si abbassarono, adagio, nella caricatura di un battito di ciglia.

Poi il pugno esplose sulla sua mascella. Blaine colpì nel punto cui aveva mirato, colpì con tutte le sue forze, torcendo il busto per caricare di energia il colpo. E mentre colpiva e il dolore del contatto saettava dalle nocche delle dita e risaliva formicolando fino al polso, comprese che era tutto assurdo. Perché Freddy non si era quasi mosso, non aveva neppure cercato di difendersi.

Freddy stava cadendo, ma non come cade di solito una persona. Cadeva lentamente, come un albero che si rovescia dopo l’ultimo taglio. Con un moto lentissimo, si afflosciò sul pavimento, e mentre cadeva la sua mano uscì finalmente dalla tasca: e stringeva una pistola. La pistola sfuggì alle dita flaccide, e toccò il pavimento prima di lui.

Blaine si curvò a raccoglierla, e se la ritrovò in mano prima che Freddy toccasse il pavimento: rimase lì, con l’arma fra le dita, a guardare Freddy che cadeva… No, non cadeva: era come se si sistemasse lentamente sul pavimento, e si rilassasse sulla superficie, al rallentatore.

L’orologio continuava a gemere sulla parete, e Blaine si girò di scatto a guardarlo, e vide che la lancetta dei secondi stava avanzando piano piano sul quadrante. Strisciava, mentre avrebbe dovuto galoppare, ed emetteva un gemito invece di un ronzio. Anche l’orologio, si disse Blaine, era impazzito.

C’era qualcosa che non andava, nel tempo. La lancetta dei secondi che strusciava adagio adagio, e la lenta reazione di Freddy erano le prove.

Il tempo aveva rallentato.

E questo era impossibile.

Il tempo non rallentava. Il tempo era una costante universale. Ma se il tempo, in un modo o nell’altro, aveva davvero rallentato, perché non era accaduto anche a lui?

A meno che…

A meno che, naturalmente, il tempo fosse rimasto così come era, e lui fosse stato accelerato, si fosse mosso così rapidamente che Freddy non aveva avuto il tempo di agire, non aveva avuto la possibilità di difendersi, non era riuscito ad estrarre la pistola dalla tasca.

Blaine protese il pugno davanti a sè e guardò la pistola. Era una cosa massiccia e orribile, di una ottusità mortale.

Freddy non aveva scherzato, l’Amo non stava scherzando. Non si butta sul tappeto una pistola in un gioco di società, tutto leggerezza e cortesia. Non si porta una pistola, a meno che non si sia decisi ad usarla. E Freddy, su questo non c’era il minimo dubbio, era deciso ad usarla.

Blaine si voltò di scatto verso Freddy: era ancora disteso sul pavimento, e sembrava riposasse. Sarebbe passato un certo tempo, prima che rinvenisse.

Blaine si mise in tasca la pistola, si voltò verso la porta, e diede un’occhiata all’orologio. La lancetta dei secondi si era spostata appena appena.

Raggiunse la porta, l’aprì, si voltò a dare un’ultima occhiata alla cucina. Scintillava ancora di cromature e di elettrodomestici, e l’unico elemento di disordine era Freddy, disteso sul pavimento.

Blaine uscì, si avviò sul sentiero di pietre che portava alla lunga scalinata scolpita sulla grande parete rocciosa.

In cima alla scalinata un uomo stava oziando, e cominciò a raddrizzarsi lentamente, mentre Blaine correva verso di lui, lungo il sentiero. La luce che usciva da una delle finestre del piano superiore balenò sul volto dell’uomo che si stava raddrizzando, e Blaine vide un’espressione di sorpresa e di collera scolpita su quel volto.

«Scusami, amico,» disse Blaine.

Fece scattare il braccio, rigidamente, con la palma aperta e piatta, e colpì quel volto.

L’uomo ondeggiò all’indietro, lentamente, passo per passo, quasi con cautela, inclinandosi sempre di più all’indietro, ad ogni passo. Ancora un poco, e sarebbe caduto riverso.

Blaine non si fermò a guardare. Scese le scale, correndo. Dietro le file scure dei veicoli fermi c’era una macchina, con i fari posteriori accesi e il motore che ronzava sommessamente.

La macchina di Harriet, si disse Blaine: ma era puntata nella direzione sbagliata… non con il muso verso l’uscita del canyon , ma nel senso opposto. E questo era un errore, e lui lo sapeva, perché due o tre chilometri più in là la strada finiva.

Arrivò in fondo alla scalinata e passò fra le macchine parcheggiate, giunse sulla strada.

Harriet era seduta in macchina ad aspettarlo, e lui aprì la portiera, salì.

La debolezza lo investì: era una debolezza terribile che gli indolenziva le ossa, come se avesse corso troppo a lungo. Si lasciò cadere sul sedile, guardò le proprie mani abbandonate sulle ginocchia, e vide che tremavano.

Harriet si girò a guardarlo.

«Non ci hai messo molto» disse.

«Ho fatto tutto in fretta,» disse Blaine.

Lei innestò la marcia e la macchina avanzò fluttuando sulla strada, con i getti d’aria che ronzavano: le pareti del canyon raccolsero quel ronzio, palleggiandolo a destra e a sinistra.

«Spero che tu sappia quello che fai,» disse Blaine. «Poco più avanti la strada finisce.»

«Non preoccuparti, Shep. Lo so.»

Lui era troppo stanco per discutere. Era sfinito.

Ed era giusto che lo fosse, si disse, perché si era mosso dieci (o cento?) volte più rapidamente del normale, più di quanto un corpo umano potesse sopportare. Aveva speso le sue energie ad una velocità tremenda: il suo cuore aveva battuto più rapidamente, i suoi polmoni avevano lavorato a un ritmo disperato, e i suoi muscoli s’erano contratti e decontratti con una intensità spaventosa.

Rimase immobile, sbalordito per quello che era accaduto, e si chiese come era potuto accadere. Ma il suo stupore era accademico e formale, perché in realtà sapeva benissimo che cosa era accaduto.

Il Rosa sembrava svanito: lui lo cercò e lo ritrovò, raggomitolato comodamente nella sua tana.

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