Clifford Simak - Pescatore di stelle

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L’Uomo vuole raggiungere le Stelle, ma non con mezzi tecnici comuni o strabilianti astronavi, bensì mediante una forma superiore di telecinetica, capace di proiettare la mente e quindi il corpo negli spazi infiniti. Il lettore compirà con la fantasia un viaggio che contempla mete raggiungibili soltanto dopo centinaia o migliaia di anni-luce, addentrandosinei misteri della più straordinaria categoria di mutanti, superando i pericoli più insidiosi dell’incomprensione e dell’odio.

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Aprì lo sportello, ed era veramente un armadio a muro, e lì dentro trovò appesi i suoi abiti. La biancheria era scomparsa, ma c’erano i calzoni e la camicia, e sul ripiano erano posate le sue scarpe. La giacca era scivolata giù dalla stampella, e s’era ammucchiata sul ripiano.

Si tolse la camicia da notte dell’ospedale, e prese i calzoni. Li infilò, li allacciò alla cintura.

Stava per prendere anche la camicia, quando il silenzio lo colpì… il silenzio tranquillo e dolcissimo di un pomeriggio d’autunno. La pace delle foglie gialle e la dolcezza della foschia sulle colline lontane, e l’aria che sembrava avere un ricco sapore di vino.

Ma quel silenzio non andava.

Doveva esserci il respiro ansimante e gorgogliante dell’uomo sull’altro letto.

Blaine incurvò le spalle, si aggobbì, come per difendersi da un colpo: attese di percepire un suono, e non lo percepì.

Girò di colpo su se stesso, mosse un passo verso il letto, e poi si fermò. Non aveva nessun motivo di avvicinarsi a quel letto. Il corpo bendato di Riley giaceva silenzioso ed immobile, e sulle labbra c’era una bolla di saliva, che sembrava congelata.

«Dottore!» gridò Blaine. «Dottore!» Corse verso la porta, urlando, e mentre correva e gridava si rendeva perfettamente conto di comportarsi come uno sciocco, sapeva che la sua reazione era irrazionale.

Arrivato alla porta, si fermò. Appoggiò le mani agli stipiti, e si sporse, affacciandosi nel corridoio.

Il dottore stava arrivando, a passo svelto, ma senza correre.

«Dottore,» bisbigliò Blaine.

Il dottore raggiunse la porta, tese una mano e spinse dentro Blaine, poi si diresse verso il letto.

Si chinò, appoggiò lo stetoscopio sul petto della mummia, poi si scostò.

Guardò Blaine, duramente.

«E lei, dove stava andando?»

«È morto,» disse Blaine. «Ha smesso di respirare, e c’è voluto un pò di tempo perché me ne accorgessi…»

«Sì, è morto. Non ha mai avuto una sola probabilità di cavarsela. Anche con il gobathian , non aveva nessuna probabilità di cavarsela.»

« Gobathian? L’ha curato con quello? Per questo era tutto bendato?»

«Era a pezzi,» disse il dottore. «Come un giocattolo che qualcuno avesse gettato sul pavimento e calpestato. Era…»

Si interruppe, bruscamente, e fissò Blaine per un lungo, aspro momento.

«Che cosa ne sa, lei, del gobathian? » chiese.

«Ne ho sentito parlare,» disse Blaine.

E questo era verissimo, pensò.

«È un medicinale alieno,» disse il dottore. «Usato da una razza di insetti. Di insetti guerrieri. E ha fatto miracoli, veramente. Può rattoppare un corpo sfracellato. Può riparare ossa ed organi. Può far crescere tessuti nuovi.»

Abbassò lo sguardo sulla cosa morta avvolta nelle bende, poi tornò a fissare Blaine.

«Ha letto la letteratura medica relativa al gobathian? » gli domandò.

«Un articolo di divulgazione,» mentì Blaine. «In una rivista.»

E intanto gli sembrava di rivedere la follia ribollente di quel pianeta coperto di giungle, dove aveva trovato per caso quel medicinale usato dagli insetti… Anche se, in verità, non erano insetti, e quello non era un medicinale.

Comunque, disse a sè stesso, non era il caso di stare a discutere. La terminologia, che era sempre stata molto difficile, era diventata qualcosa di impossibile, da quando gli uomini avevano incominciato ad andare fra le stelle. Si usavano termini approssimativi, e ci si doveva accontentare di quelli.

«La trasferiremo in un altra stanza,» gli disse il dottore.

«Non ce n’è bisogno,» rispose Blaine. «Stavo proprio per andarmene.»

«Non può,» fece il dottore, seccamente. «Non glielo permetterò. Non voglio averla sulla coscienza. C’è qualcosa che non va, in lei, qualcosa che non va per niente. E non c’è nessuno che può prendersi cura di lei… né amici, né parenti.»

«Me la caverò. Me la sono sempre cavata da solo.»

Il dottore si avvicinò.

«Ho l’impressione,» fece, «che lei non mi stia dicendo la verità… la verità intera.»

Blaine si scostò. Ritornò all’armadio a muro, prese la camicia e la indossò, poi si infilò le scarpe. Prese la giacca e chiuse lo sportello, e si voltò.

«E adesso.» dichiarò, «se vuole avere la cortesia di scostarsi, me ne andrò.»

Qualcuno si stava avvicinando, nel corridoio. Forse, pensò Blaine. stavano portandogli da mangiare, come aveva promesso il dottore. E forse lui avrebbe dovuto aspettare ad andarsene, perché aveva bisogno di nutrirsi.

Ma non era una persona sola, che stava percorrendo il corridoio… poteva distinguere almeno il suono di due passi distinti. Forse qualcuno l’aveva sentito gridare per chiamare il dottore, e veniva a vedere che cosa stava accadendo.

«Vorrei proprio che lei cambiasse idea,» disse il dottore. «A parte il fatto che ha bisogno di cure, ci sono anche le formalità…»

Blaine non sentì altro, perché quelli che avevano camminato nel corridoio erano arrivati alla porta, ed erano fermi proprio lì davanti, e guardavano nella stanza.

E Harriet Quimby, gelida come il ghiaccio, stava dicendo: «Shep, come hai fatto a finire qui? Ti abbiamo cercato dappertutto!»

E il messaggio telepatico lo colpì come una sferzata.

Avanti! Presto! Dimmi tutto!

Reclami, ecco tutto (una donna inferocita che si trascinava dietro un ragazzetto riluttante, senza cerimonie). Se fai così, mi lasceranno andare. Mi hanno trovato steso sotto un salice…

(Un ubriaco che era riuscito ad entrare in un bidone della spazzatura e adesso non ce la faceva più ad uscire, con il cappello a cilindro di sghimbescio sulla testa, il naso rosso che lampeggiava come un’insegna pubblicitaria, gli occhi strabuzzati in un’espressione di blanda stupefazione.)

No, non così , fece Blaine. Ero solo disteso sotto l’albero, morto al mondo. Il dottore è convinto che c’è qualcosa che non va, in me…

E c’è.

Sì, ma non è quello che pensa lui…

E Godfrey Stone stava dicendo, tranquillamente, amichevolmente, con un sorriso che era per metà di sollievo e per metà di preoccupazione: «Il solito guaio, eh? Troppi liquori, immagino. Sai benissimo che il dottore ti aveva detto…»

«Oh, che diavolo!» protestò Blaine. «Soltanto un bicchierino o due. Non abbastanza per…»

«Zia Edna sembrava impazzita,» disse Harriet. «Ha immaginato che ti fosse successo chissà che cosa. Sai che è speciale, lei, per preoccuparsi. Era convinta che questa volta te ne fossi andato per sempre.»

Godfrey! Godfrey! Oh, mio Dio, tre anni…

Calma, Shep. Adesso non è il momento. Dobbiamo tirarti fuori di qui.

«Conoscete quest’uomo?» fece il dottore Wetmore. «È un vostro parente?»

«Non siamo parenti,» disse Stone. «Solo amici. Sua zia Edna è una nostra…»

«E va bene, andiamo,» disse Blaine.

Stone lanciò al dottore un’occhiata interrogativa, e Wetmore annuì.

«Fermatevi all’accettazione,» disse, «e ritirate il certificato di dimissione. Telefonerò giù io. Vorranno i vostri nomi.»

«Certo,» disse Stone. «La ringrazio moltissimo.»

«Tutto a posto, allora.»

Blaine si soffermò sulla soglia e si voltò verso il dottore.

«Mi dispiace,» fece. «Non le avevo detto la verità. Non ne sono molto orgoglioso, vede.»

«Tutti noi,» disse il dottore, «abbiamo dei momenti di cui non possiamo andare orgogliosi. Lei non è l’unico.»

«Arrivederci, dottore.»

«Arrivederci,» disse Wetmore. «Si riguardi.»

Poi si avviarono per il corridoio, tutte e tre insieme.

Chi c’era in quell’altro letto? chiese Stone.

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