Clifford Simak - Pescatore di stelle

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L’Uomo vuole raggiungere le Stelle, ma non con mezzi tecnici comuni o strabilianti astronavi, bensì mediante una forma superiore di telecinetica, capace di proiettare la mente e quindi il corpo negli spazi infiniti. Il lettore compirà con la fantasia un viaggio che contempla mete raggiungibili soltanto dopo centinaia o migliaia di anni-luce, addentrandosinei misteri della più straordinaria categoria di mutanti, superando i pericoli più insidiosi dell’incomprensione e dell’odio.

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«Come è arrivato in questa città?»

«Non riesco a ricordarlo.»

Si sollevò a sedere.

«Senta, dottore, potrei andarmene? Tutto quello che faccio, qui, è occupare un letto.»

Il dottore scosse di nuovo il capo.

«Preferirei che rimanesse. Ci sono molte analisi da fare e…»

«Sarà un grosso disturbo, per lei.»

«Non ho mai avuto a che fare con un caso come il suo,» disse il dottore. «Mi farebbe un favore. Non c’era niente fuori posto, organicamente, voglio dire. Il battito del cuore era un pò ritardato, la respirazione rallentata, la temperatura alterata di qualche decimo di grado. Ma per il resto, tutto a posto, a parte il fatto che era svenuto. Non c’era modo di svegliarla.»

Blaine girò il capo verso la mummia.

«Quello è conciato male, no?»

«Un incidente sull’autostrada,» disse il dottore.

«È molto insolito. Non succedono più ormai.»

«Sì,» fece il dottore. «Molto insolito. Guidava un vecchio camion. Andava forte, e gli è scoppiata una gomma. Ad una delle curve, sopra al fiume.»

Blaine fissò intento l’uomo disteso sull’altro letto: ma non c’era modo di saperlo. Non si vedeva niente, di lui. Il suo respiro lamentoso e raschiante continuava: ma non era possibile capire chi fosse.

«Potrei farla trasferire in un’altra stanza,» si offrì il dottore.

«Non ce n’è bisogno. Non resterò per molto.»

«Preferirei che rimanesse per un pò. Magari potrebbe svenire ancora, e questa volta, magari, potrebbe darsi che nessuno la trovasse.»

«Ci penserò,» promise Blaine.

Tornò a sdraiarsi.

Il dottore si alzò e si accostò all’altro letto, si chinò ed ascoltò il respiro. Poi prese un batuffolo di ovatta, lo passò sulle labbra dell’uomo, mormorò qualcosa, poi si raddrizzò.

«Ha bisogno di qualcosa?» chiese a Blaine. «Dovrebbe avere fame.»

Blaine annuì. Adesso che ci pensava, aveva davvero fame.

«Ma non c’è fretta,» disse.

«Avviserò in cucina,» disse il dottore. «Le prepareranno qualcosa.»

Girò sui tacchi e uscì ad andatura svelta dalla stanza, e Blaine ascoltò il suono di quei passi rapidi e decisi che si allontanavano.

E all’improvviso seppe, o ricordò, perché adesso era al sicuro. La luce lampeggiante che segnalava la sua presenza adesso era scomparsa, perché l’essere della stella lontano l’aveva tolta. Adesso non aveva più bisogno di nascondersi.

Rimase disteso a pensare, e si sentì un poco più umano… anche se, per dire la verità non si era mai sentito altro che umano. Ma adesso, per la prima volta, al di sotto della sua umanità, sentiva la svelta tensione di una conoscenza nuova, di uno strato profondo di conoscenze nuove al quale poteva attingere.

Nell’altro letto, la mummia si lagnava e continuava a respirare con quel suono raschiante.

«Riley!» mormorò Blaine.

Non vi fu alcuna interruzione nel respiro, non il minimo segno che quello l’avesse udito.

Blaine gettò le gambe giù dal letto, rimase lì seduto, e posò i piedi sul pavimento, e il pavimento a piastrelle era gelido. Si alzò, e la ruvida camicia da notte da ospedale gli pendeva addosso, ridicolmente.

Si accostò all’altro letto, e si chinò, accostandosi alla cosa fasciata di bianco che vi giaceva.

«Riley? Sei tu? Riley, mi senti?»

La mummia si mosse.

La testa tentò di girarsi verso di lui, ma senza riuscirvi. Le labbra si mossero, con uno sforzo. La lingua lottò per formare un suono.

«Dì…» fece, strascicando quella parola per lo sforzo di pronunciarla.

Poi ritentò.

«Dì a Finn…» fece.

Non disse altro. Blaine sentì che aveva altro da dire. Attese. Le labbra tornarono a muoversi, laboriosamente. La lingua si agitò pesantemente nella caverna della bocca. Ma non riuscì a dire altro.

«Riley!»

Non vi fu risposta.

Blaine indietreggiò, fino a quando urtò con l’incavo delle ginocchia contro il proprio letto, e vi si lasciò cadere seduto.

E restò lì, a guardare la figura fasciata, immobile come una mummia.

E la paura, pensò, la paura aveva raggiunto quell’uomo, alla fine, la paura che lui aveva cercato di lasciarsi indietro correndo per mezzo continente. E non era fuggito dalla paura che aveva indotto lui alla fuga: ma da un’altra paura e da un altro pericolo.

Riley ansimava.

E aveva un’informazione da trasmettere ad un uomo che si chiamava Finn, pensò Blaine. Chi era Finn, e dov’era? Che cosa aveva a che fare con Riley?

Finn?

C’era stato un Finn.

Una volta, molto tempo prima, aveva conosciuto il nome di Finn.

Blaine rimase seduto, rigido, sul letto, cercando di ricordare ciò che sapeva di Finn.

Però poteva trattarsi di un altro Finn.

Perché Lambert Finn era stato un viaggiatore dell’Amo, anche se era scomparso proprio come era scomparso Godfrey Stone, da molti anni prima che Stone scomparisse, molto tempo prima che lo stesso Blaine entrasse a far parte dell’Amo.

E adesso era un nome che veniva bisbigliato, una leggenda, un personaggio agghiacciante di una vicenda agghiacciante, una delle poche storie dell’orrore dell’Amo.

Perché, così si diceva, Lambert Finn un giorno era ritornato dalle stelle pazzo furioso.

XVIII

Blaine tornò a distendersi sul letto, e fissò il soffitto. Dalla finestra entrò un soffio di brezza, e le ombre delle fronde di un ramo che cresceva là fuori giocavano convulsamente sulla parete bianca. Doveva essere un albero molto ostinato, pensò Blaine: fra gli ultimi che perdevano le foglie, perché ormai era ottobre avanzato.

Ascoltò i rumori smorzati che provenivano dai corridoi, al di là di quella stanza: e nell’aria aleggiava sempre quell’odore pungente di antisettici.

Doveva andarsene di lì, pensò. Doveva rimettersi in cammino. Ma dove sarebbe andato? Sarebbe andato a Pierre, naturalmente: a Pierre, e da Harriet, se Harriet era là. Ma Pierre, in se stessa, era una specie di veicolo cieco. A quel che ne sapeva lui, era inutile andarci. A quel che ne sapeva lui, poteva essere soltanto un possibile nascondiglio.

Perché lui stava ancora fuggendo, in una fuga cieca e disperata. Aveva continuato a fuggire fin dal momento in cui era ritornato dalla sua missione fra le stelle. E la cosa peggiore era proprio quella: il fatto che fuggiva senza uno scopo, fuggiva soltanto per salvarsi, soltanto per andare via.

Quell’assenza di scopo gli faceva male: gli dava la sensazione di essere una cosa vuota. Lo trasformava in un oggetto trasportato dal vento e privo di una volontà propria.

Rimase adagiato sul letto, e lasciò che quella sofferenza penetrasse nel suo essere, e con la sofferenza l’amarezza e la perplessità. Aveva fatto davvero bene a fuggire dall’Amo, era stata la decisione più saggia? Poi ricordò Freddy Bates, e il sorriso artificioso di Freddy, e lo scintillio nei suoi occhi, e la pistola che portava in tasca. E seppe che non poteva esservi il minimo dubbio; aveva fatto la sola cosa che andava fatta.

Ma, da qualche parte, doveva pure esserci qualcosa cui aggrapparsi, qualcosa cui afferrarsi, un brandello di speranza od una promessa che lo sostenesse. Non doveva andarsene alla deriva, per sempre, senza uno scopo. Sarebbe venuto il momento in cui avrebbe potuto smettere di fuggire, in cui avrebbe posato saldamente i piedi per terra, e avrebbe potuto guardarsi intorno.

Sul letto accanto, Riley ansimò e gemette e gorgogliò e poi tacque.

Non aveva senso rimanere lì come avrebbe voluto il dottore, si disse Blaine. Perché il dottore non sarebbe riuscito a trovare nulla, e lui non poteva dirgli nulla, e nessuno dei due ne avrebbe ricavato qualcosa.

Scese di nuovo dal letto, e attraversò la stanza, verso lo sportello di quello che doveva essere un armadio a muro.

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