Tutto questo… e molto di più.
Blaine, mentre ascoltava, si rendeva conto della misura veramente fantastica dell’essere che aveva conservata il ricordo del suo inizio, e non aveva neppure un concetto della fine: una creatura dalla mente vagabonda che aveva esplorato, durante miliardi di anni, milioni di stelle e di pianeti sparsi in milioni di anni-luce, in quella galassia e in alcune delle galassie più vicine: una mente che aveva raccolto un confuso, gigantesco patrimonio di informazioni assortite, e non faceva il minimo sforzo per utilizzarle. Molto probabilmente, non aveva idea di come utilizzarle, eppure era turbata dalla vaga sensazione che quel patrimonio di conoscenze non doveva essere abbandonato ad oziare.
Era il tipo di creatura che poteva starsene ferma al sole per un tempo interminabile, a raccontare episodi eccentrici di tutto ciò che aveva veduto.
E per la razza umana, pensò Blaine, quella era una enciclopedia galattica, un atlante che comprendeva le mappe di innumerevoli anni-luce cubici. Quella era il tipo di creatura che la tribù dell’Uomo avrebbe potuto utilizzare. Quelle erano le nozioni che valeva la pena di acquisire, riservate da una entità che sembrava priva di sentimenti, a parte un certo senso di amichevolezza; una entità che, in tutti quegli anni di immobile osservazione, aveva esaurito ogni capacità di emozione, se pure l’aveva mai posseduta: che non aveva usato nulla delle conoscenze acquisite, ma che non aveva perduto egualmente il suo tempo. Perché in tutte le sue osservazioni, in tutto quel suo stare alla finestra a guardare gli altri mondi, aveva acquisito una enorme to’leranza ed una comprensione, non della sua stessa natura, non della natura umana, ma di ogni natura: una comprensione della stessa vita, di ogni essere senziente e intelligente; ed una comprensione per tutti i moventi e per tutte le morali, e per tutte le ambizioni, anche se apparivano assurdi agli occhi di altri esseri viventi.
E tutto questo, pensò Blaine con un trasalimento improvviso, era egualmente accumulato nella mente di un solo essere umano, del solo Shepherd Blaine, se mai fosse riuscito a dividere e a classificare per un uso adeguato.
Mentre ascoltava, Blaine perse il senso del tempo, perse la consapevolezza di ciò che era e di dove era e del perché era lì: ascoltava come un ragazzo ascolterebbe una stupenda avventura narrata da un vecchio marinaio venuto da terre lontane e sconosciute.
La stanza era divenuta familiare, e il Rosa era un amico, e le stelle non erano più aliene, e l’ululato lontano del vento del deserto era una ninnananna che lui aveva sempre conosciuto.
Passò molto tempo prima che si rendesse conto di ascoltare soltanto il vento: e le storie di luoghi lontani e di tempi lontani s’erano interrotte.
Si riscosse, quasi insonnolito, e il Rosa riprese a parlare.
È stata una bellissima visita. Credo che sia stata la migliore che io abbia mai ricevuto.
C’è una cosa , disse Blaine. Una domanda…
Se è per lo schermo , disse il Rosa, non hai motivo di preoccuparti. L’ho tolto. Non c’è più nulla che possa tradirti.
Non è questo , disse Blaine. È il tempo. Io… cioè, noi due… abbiamo un certo controllo del tempo. Per due volte mi ha salvato la vita.
È lì , disse il Rosa. La comprensione più semplice che esista. Ti dirò…
Blaine rimase disteso a lungo, immergendosi nella sensazione del proprio corpo, perché adesso aveva un corpo. Poteva sentire la pressione su quel corpo, il movimento dell’aria che sfiorava la pelle, l’umidità calda del sudore che gli solleticava le braccia e il viso e il petto.
Non era più nella stanza azzurra, perché là non aveva corpo; e non c’era più il suono lontano del vento del deserto. C’era, invece, un suono regolare e raschiante. E c’era un odore, un odore astringente, un odore aggressivo e antisettico che riempiva non soltanto le sue narici, ma tutto il suo corpo.
Sollevò lentamente le palpebre, per mettersi al sicuro da una possibile sorpresa, pronto a richiuderle di colpo se fosse stato necessario. Ma c’era soltanto un biancore, attorno a lui, piatto e senza rilievi. Non era altro che il biancore di un soffitto.
La sua testa era posata su di un cuscino, e c’era un lenzuolo, sotto di lui, e lui indossava una specie di indumento che faceva un pò prurito.
Mosse il capo, e vide l’altro letto, e su quel letto giaceva una mummia.
Il tempo, aveva detto l’essere su quell’altro mondo, il tempo è la cosa più semplice che esista. E aveva annunciato che glielo avrebbe detto, ma non aveva potuto dirglielo, perché lui non era rimasto lì ad ascoltare.
Era come un sogno, pensò; adesso che ci ripensava aveva la qualità irreale e distorta di un sogno. Ma non era stato un sogno. Era tornato ancora una volta nella stanza azzurra e aveva parlato con l’essere che vi abitava. L’aveva ascoltato narrare le sue storie e conservava ancora nella mente i particolari di quelle storie. I particolari non si dileguavano, come sarebbero dileguati, invece, se fosse stato un sogno.
La mummia giaceva sul letto accanto, avvolta nelle bende. In quelle bende c’erano buchi per le narici e per la bocca, ma non per gli occhi. Respirava, e nel respirare emetteva quel suono raschiante e lamentoso.
Le pareti erano bianche come il soffitto, e il pavimento era di piastrelle di ceramica, quel luogo aveva un’aria così sterilizzata che quasi urlava la sua identità.
Era in una stanza d’ospedale, con una mummia che si lamentava.
La paura lo invase, un’ondata improvvisa di paura: ma rimase disteso, immobile, fino a quando l’ondata non fu passata. Perché, nonostante la paura, sapeva di essere al sicuro. Per qualche ragione, era al sicuro: e se ci avesse pensato, avrebbe scoperto quale era quella ragione.
Dove era stato, si chiese: dove era andato, oltre che in quella stanza azzurra? La sua mente risalì, risalì, e lui ricordò dove era stato: nel boschetto di salici, sulla riva del torrente, oltre la periferia della città.
Nel corridoio risuonò un passo, e poi un uomo in camice bianco entrò.
L’uomo si fermò sulla porta e restò lì, a guardarlo.
«Dunque è rinvenuto, finalmente,» disse il dottore. «Come si sente?»
«Non troppo male,» disse Blaine; e in realtà si sentiva benissimo. A quanto pareva, non aveva niente che non andasse. «Dove mi avete raccolto?»
Il medico non rispose. Fece un’altra domanda.
«Le era già capitato altre volte?»
«Mi era già capitato cosa?»
«Di svenire,» disse il dottore. «Di cadere in coma.»
Blaine scosse la testa sul cuscino.
«No, che io ricordi.»
«Come se fosse caduto vittima di un incantesimo,» disse il dottore.
Blaine rise.
«Stregoneria, dottore?»
Il dottore fece una smorfia.
«No, non credo. Ma non si sa mai. Qualche volta i pazienti ci credono.»
Attraversò la stanza e sedette sull’orlo del letto.
«Sono il dottor Wetmore,» disse a Blaine. «Lei è qui da due giorni. Alcuni ragazzi che erano andati a caccia di conigli, a est della città, l’hanno trovata per caso. Era rannicchiato sotto i salici. Hanno creduto che fosse morto.»
«E così mi avete portato qui.»
«È stata la Polizia.»
«E che cos’ho?»
Wetmore scosse il capo.
«Non lo so.»
«Non ho denaro. Non posso pagarla dottore.»
«Questo,» disse il dottore, «non ha la minima importanza.»
Rimase seduto a guardarlo.
«Comunque c’è una cosa strana. Lei non aveva documenti addosso. Ricorda chi è?»
«Sicuro. Sono Shepherd Blaine.»
«E dove abita?»
«In nessun posto,» disse Blaine. «Vado in giro.»
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