«Ecco qui il guaio», disse.
L’uomo si chinò a guardare nel punto che Blaine gli stava indicando.
«Mi venga un accidente se non è vero», disse.
«Fra un quarto d’ora l’avrò riparato e rimesso a posto. Se ha un po’ d’olio, possiamo lubrificare ig passo delle viti».
Il camionista si alzò, si asciugò le mani sul fondo dei pantaloni.
«Vado a vedere», disse.
Si incamminò verso il camion, poi si fermò e si voltò, tendendo la mano.
«Mi chiamo Buck», disse. «Buck Riley».
«Blaine. Può chiamarmi Shep».
Si strinsero la mano.
Riley rimase lì, indeciso, strascicando i piedi.
«Hai detto di essere diretto verso il Dakota». Blaine annuì.
«Io finirò per diventare matto», disse Riley. «Ho bisogno di qualcuno che mi aiuti».
«E potrei aiutarti?» chiese Blaine.
«Saresti disposto a guidare di notte?»
«Sì, che diavolo», disse Blaine.
«Ma avrai bisogno di dormire un po’».
«Ci arrangeremo anche per questo, in un modo o nell’altro. Dobbiamo viaggiare senza soste. Ho già perduto anche troppo tempo».
«Vai dalle parti del Sud Dakota?»
Riley annuì.
«Allora, vieni con me?»
«Con grande gioia», disse Blaine. «È molto meglio che arrivarci a piedi».
«E potrai guadagnarti qualche soldo. Non molto, ma…»
«Non parliamo di quattrini. A me basta il passaggio».
Si diressero verso nord-est, continuando a viaggiare di giorno e di notte. Ma non era che continuassero ad andare: metà del tempo, in effetti, andava sprecato nelle soste forzate. Il camion era un autentico rottame. Lottarono con il motore capriccioso, lottarono con i pneumatici vecchi e logori, dovettero sistemare più volte lo chassis tremolante… e percorsero anche una certa distanza, ma non gran che.
Le strade erano pessime, come ormai erano tutte le strade del mondo. Da molti anni, ormai, era svanito il concetto antico delle autostrade liscie, a superficie dura e quasi lucidata, perché non erano più necessarie. A quei tempi il traffico era costituito quasi esclusivamente di automobili e di camion che erano per metà aeroplani; non occorrevano buone strade, per veicoli che quando viaggiavano non toccavano mai il suolo.
La superficie delle vecchie autostrade era spezzata e piena di buche. Era un grosso guaio per i pneumatici, ed i pneumatici non erano in buone condizioni: e, anche se Riley avesse potuto permettersi di comprarli, trovare pneumatici nuovi era tutt’altro che facile. La richiesta per le gomme del tipo adatto a quel vecchio camion scassato era scesa fino a ridursi praticamente a zero, e bisognava essere molto fortunati per riuscire a trovarle.
E c’era anche un’altra preoccupazione continua: bisognava trovare la benzina per fare il pieno. Non c’erano più distributori e stazioni di servizio: non ce n’erano più da circa cinquant’anni. Non c’era bisogno di distributori e di stazioni di servizio, quando i veicoli viaggiavano grazie all’energia atomica. Perciò, in ogni paese, andavano in cerca di consorzi agrari e dei depositi di carburante della cooperativa, perché in generale le macchine agricole funzionavano ancora a benzina.
Dormivano quando potevano, sonnecchiando quando capitava l’occasione. Mangiavano spesso mentre viaggiavano, di solito sandwiches e ciambelle comprate durante una sosta, e bevevano il caffè che portavano con loro in una vecchia borraccia di latta. Avanzarono così sulle antiche autostrade, che adesso venivano usate dai veicoli moderni soltanto perché quelle autostrade erano state realizzate con criteri validi, e rappresentavano ancora la via più breve e più comoda per andare da una località all’altra.
«Non avrei mai dovuto accettare di fare questo trasporto», disse Riley. «Ma c’era da guadagnare bene, e non mi vergogno di dirti che ho bisogno di quattrini».
«Probabilmente ce la farai benissimo», lo rassicurò Blaine. «Magari arriverai con un paio di giorni di ritardo, ma vedrai che ce la faremo».
«Se il camion non si sfascia lungo la strada».
«È già abbastanza sfasciato così com’è», gli fece osservare Blaine.
Riley si asciugò la faccia con un fazzoletto sbiadito, che un tempo era stato rosso vivo.
«Non è solo per il camion», disse. «C’è anche il logorio del materiale umano».
Riley era un uomo spaventato… e quella paura, Blaine lo aveva notato, gli arrivava fin dentro al midollo delle ossa.
E, mentre osservava quell’uomo, Blaine si disse che non si trattava semplicemente del meccanismo emotivo di un individuo spaventato dall’orribile patrimonio di malignità e di malvagità, dal quale, poiché vi aveva sempre creduto per tutta la vita, era in grado di evocare senza il minimo sforzo le fantasie terrificanti di un’epoca passata. Si trattava di qualcosa di più: di qualcosa di più immediato della paura degli incubi notturni.
Per Blaine, quell’uomo era una stranezza, un esemplare umano uscito chissà come da un museo medioevale: un uomo che aveva paura del buio e delle forme immaginarie che lo popolavano: un uomo che riponeva tutta la sua fiducia in un segno cabalistico e in un fucile caricato a pallettoni d’argento. Aveva sentito parlare spesso di individui del genere, ma non ne aveva mai incontrato uno. Se anche ce n’erano alcuni come lui, fra la gente che frequentava l’Amo, avevano sempre nascosto gelosamente le loro paure dietro una maschera disinvolta e sofisticata.
Ma, se Riley era una curiosità per Blaine, anche Blaine era una curiosità per lui.
«Non hai paura?» gli chiedeva.
Blaine scrollava il capo.
«Non ci credi, a queste cose?»
«A me», rispondeva allora Blaine, «sono sempre sembrate delle sciocchezze».
Riley protestava.
«Non sono sciocchezze, amico. Posso assicurartelo. Ho conosciuto troppa gente: ho sentito troppe storie, e so che sono vere. C’era un vecchio, lassù nell’Indiana, quand’ero bambino. Lo hanno trovato impigliato in una staccionata, con la gola squarciata. E attorno al cadavere c’erano tracce e puzzo di zolfo».
E se non era quella la storia che raccontava, era un’altra, altrettanto sanguinosa, altrettanto mistica, altrettanto tenebrosa.
E che cosa si poteva dire? si chiedeva Blaine. Come si poteva trovare una spiegazione? Perché credere, o più esattamente voler credere, faceva parte della natura umana. Non aveva origine in assoluto nella matrice della situazione attuale, ma nel sangue e nelle ossa dell’Uomo, fin dall’epoca in cui viveva nelle caverne. C’era, nell’anima dell’Uomo, un certo fascino mortale, un’attrazione per tutto ciò che era macabro. E la situazione, così com’era era stata afferrata volutamente, quasi avidamente, da uomini per i quali il mondo era diventato un posto troppo addomesticato e tranquillo, senza altri terrori, oltre al terrore della forza bruta delle armi atomiche e dell’agghiacciante incertezza di un potere retto da uomini instabili.
Era cominciato tutto in un modo molto innocente, quando la gente aveva afferrato i nuovi principi della PK per ricavarne un divertimento ed una soddisfazione. Da un giorno all’altro, in pratica, la realtà dei poteri mentali aveva sopraffatto il mondo. I night-club avevano cambiato nome, erano sopravvenute mode stupefacenti, nuove canzoni apprezzate dagli adolescenti, la televisione si era buttata nei film dell’orrore, e gli editori avevano sfornato miliardi di volumi dedicati al soprannaturale. C’erano stati nuovi culti, e culti antichissimi erano tornati a fiorire. I tavolini a tre gambe erano ritornati in auge, dopo due secoli di oblio, dalle nebbie di un’epoca antecedente in cui la gente aveva giocato con gli spettri per divertirsi, e poi aveva rinunciato, quando si era accorta che non si poteva giocare con il mondo degli spettri. O si credeva o non si credeva: non esistevano vie di mezzo.
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