Clifford Simak - Pescatore di stelle

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L’Uomo vuole raggiungere le Stelle, ma non con mezzi tecnici comuni o strabilianti astronavi, bensì mediante una forma superiore di telecinetica, capace di proiettare la mente e quindi il corpo negli spazi infiniti. Il lettore compirà con la fantasia un viaggio che contempla mete raggiungibili soltanto dopo centinaia o migliaia di anni-luce, addentrandosinei misteri della più straordinaria categoria di mutanti, superando i pericoli più insidiosi dell’incomprensione e dell’odio.

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Superò le ultime case del villaggio e si ritrovò in aperta campagna, e lì la solitudine era ancora più grande, la spoglia desolazione ancora più avvertibile. Pochi alberi morti fiancheggiavano il torrente che scendeva verso la valle, e c’erano alcune staccionate spettrali… ma la terra era nuda, senza un filo d’erba, senza neppure un ciuffo di gramigna. E il vento aveva un tono lamentoso, mentre spazzava quella desolazione.

L’oscurità si addensò, e la luna spuntò: era uno specchio chiazzato, il cui amalgama d’argento s’era screpolato ed annerito: gettava una luce infinitamente pallida su quella distesa arida di terreno.

Arrivò ad un rozzo ponte di tavole che attraversava il piccolo torrente, e si soffermò per un secondo, per guardarsi indietro. Non si muoveva nulla: nessuno lo seguiva. Il paese era diversi chilometri più indietro, e sopra la collina che si affacciava sul ruscello stava l’ossatura squinternata di una fattoria dimenticata: un granaio, qualcosa che sembrava un porcile, alcune stalle sfasciate, e la cascina vera e propria.

Blaine rimase fermo, ad aspirare l’aria nei polmoni, ed ebbe la sensazione che persino l’aria stessa fosse morta. Non portava odori, e non aveva sapore. Non aveva in sè la scintilla della vita.

Tese una mano per posarla sulla spalletta del ponte, e quella mano passò attraverso il legno. Raggiunse il legno e vi passò attraverso, e non c’era niente. Non c’era nessun legno, e non c’era nessun ponte.

Provò di nuovo. Perché, si disse, forse s’era sbagliato, forse aveva teso la mano per toccarlo e non c’era arrivato, e aveva immaginato che la sua mano avesse attraversato la tavola di legno. Il chiaro di luna, ricordò a se stesso, giocava spesso strani scherzi del genere.

E questa volta fu molto cauto, molto attento.

E anche questa volta la sua mano attraversò la tavola di legno.

Indietreggiò di un paio di passi, per scostarsi dal ponte, perché era diventato improvvisamente qualcosa… non una minaccia, forse, ma comunque qualcosa da trattare con prudenza. Non era il caso di fidarsi. Era una fantasia e un’illusione: era uno spettro che stava posato sulla strada. Se vi si fosse incamminato, si disse, sarebbe precipitato nel letto del torrente.

E gli alberi morti, e i pali delle staccionate, allora? Anche quelli erano illusioni?

Rimase immobile, irrigidito, fino a quando non sopravvenne un pensiero. Era tutta un’illusione? Per un attimo illogico non osò muoversi, quasi quasi non osò neppure respirare, perché ogni cosa che lui poteva fare, ogni perturbazione che poteva determinare, rischiava di precipitare quel luogo fragile ed irreale nella polvere di un nulla spaventoso.

Ma il terreno era solido, sotto i suoi piedi, o almeno sembrava solido. Premette un piede al suolo, con forza, e il suolo continuò a reggerlo. Si mise in ginocchio, cautamente, e tastò il suolo con la mano protesa, irrigidendo le dita istintivamente per provarne la consistenza, insinuandole attraverso la polvere fino a raggiungere la durezza compatta della terra.

Era sciocchezza, si disse, in collera con se stesso… perché aveva camminato su quella strada, che non si era sgretolata sotto l’impatto dei suoi passi; aveva retto benissimo, sotto di lui.

E tuttavia, in quel posto non si poteva essere sicuri di niente: era un posto nel quale sembrava non esistessero più le leggi naturali. O, per lo meno, era un posto in cui si era obbligati a indovinare le leggi. Qualcosa del genere, insomma: le strade sono reali, i ponti no.

E tuttavia, non era di questo che si trattava. C’era qualcosa d’altro, di più inquietante. Fondamentalmente, la caratteristica di quel mondo era l’assenza di vita.

Quello era il passato, ed era un passato morto: vi erano soltanto cadaveri… e forse non erano neppure cadaveri, ma soltanto le loro ombre. Perché gli alberi morti, e i pali delle staccionate e i ponti e gli edifici sulla collina potevano essere classificati come ombre. Lì non c’era vita: la vita era andata avanti. La vita doveva occupare soltanto un punto singolo, nel tempo; e, come il tempo procedeva e andava avanti, la vita si muoveva insieme al tempo. E così era vano, pensò Blaine, il sogno che l’Uomo forse aveva accarezzato: visitare il passato e vivere nell’azione e nel pensiero e nelle prospettive di esseri umani divenuti ormai polvere da molto tempo. Perché non esisteva un passato vivo; e l’unico passato umano era quello contenuto nelle cronache del passato. Per la vita, l’unico punto valido era il presente: la vita continuava ad avanzare, reggendo il passo del presente, e quando era passata oltre, tutte le tracce della sua esistenza venivano cancellate con ogni cura.

C’erano alcuni fattori fondamentali, forse… il suolo, la terra stessa, ad esempio, che continuavano ad esistere in ogni punto del tempo, e possedevano una specie di eternità limitata, allo scopo di rifornire una matrice solida. E le cose morte, e le cose fabbricate, restavano nel passato, come fantasmi. I pali delle staccionate e i fili che vi erano legati, gli alberi morti, gli edifici della fattoria e il ponte erano ombre del presente che persistevano nel passato. E persistevano, forse, con riluttanza, solo perché non avendo vita non potevano procedere. Erano legate nel tempo, e si estendevano nel tempo, ed erano ombre lunghissime.

E lui, osservò Blaine, sconvolto, era l’unica cosa vivente che esisteva in quel momento su quella terra. Lui e nient’altro.

Si rialzò, si spolverò le mani. Restò a guardare il ponte, e nel fulgore del chiaro di luna il ponte non sembrava avere niente che non andasse. Eppure lui sapeva bene che cos’aveva, che non andava.

Era in trappola, pensò. Se non avesse trovato il modo di andarsene di lì, sarebbe rimasto chiuso in trappola… e lui non sapeva come andarsene.

Non vi era nulla, in tutta l’esperienza umana, che potesse offrirgli la possibilità o la speranza di saperlo.

Rimase immobile e silenzioso sulla strada, chiedendosi quanto poteva essere ancora umano, quanta umanità rimaneva ancora in lui. E, se non era completamente umano, se c’era ancora l’alienità, in lui, allora una possibilità l’aveva.

Si sentiva umano, si disse… eppure, come poteva giudicare? Perché sarebbe stato se stesso anche se fosse stato completamente alieno. Umano, umano per metà, o per nulla umano, avrebbe continuato ad essere se stesso. Difficilmente si sarebbe accorto della differenza. Non aveva alcun punto di vista esterno dal quale poteva ergersi per giudicare se stesso con un criterio simile all’obiettività.

Lui (qualunque cosa fosse) aveva saputo, in un momento di terrore e di panico, come scivolare nel passato, ed era abbastanza logico che, sapendolo, sapesse anche come tornare a scivolare nel presente, o in quello che era stato il suo presente… in quel punto del tempo, qualunque fosse, in cui la vita era possibile.

Ma la realtà, fredda e spietata, era questa: lui non aveva la minima idea di come si potesse fare.

Si guardò attorno, e nella freddezza antisettica di quel paesaggio dipinto di chiaro di luna, un brivido partì dal nucleo stesso del suo essere. Cercò di fermare quel brivido, perché lo riconobbe come preludio ad un terrore irragionevole, ma quel brivido non si poteva arrestare.

Digrignò mentalmente i denti, e il brivido continuò a farsi più forte, e all’improvviso lui seppe… con un angolo della sua mente, seppe.

Poi vi fu il fruscio del vento che soffiava tra le fronde degli alberi, là dove prima non c’era nessun albero. E il brivido era scomparso. Lui era di nuovo se stesso.

C’erano insetti che stridevano, da qualche parte, in mezzo all’erba ed ai cespugli, e c’erano puntolini di luce che si muovevano nella notte: lucciole. E, attraverso la finestra chiusa della casa sulla collina filtravano raggi sottili e strangolati di luce.

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