Girarono attorno all'edificio, passando sotto l'enorme struttura sospesa e Philos si fermò. «Sarò qui, quando avrai finito» disse.
«Vorrei che venissi con me» disse Charlie. «Questa volta vorrei averti vicino, quando qualcuno dirà: “Parlane a Philos”.»
«Oh, lo diranno. E io ti parlerò chiaro, quando sarà il momento. Ma non pensi che dovresti conoscere meglio Ledom com'è ora prima che io ti confonda le idee con una quantità di notizie su Ledom com'era una volta?»
«Tu cosa sei, Philos?»
«Uno storico.» Accennò a Charlie di portarsi alla base del muro e posò una mano sul corrimano invisibile. «Pronto?»
«Pronto.»
Philos indietreggiò e Charlie salì vertiginosamente. Ormai conosceva abbastanza quella sensazione per riuscire ad accettarla senza sentire che l'universo si rovesciava; riuscì a guardare Philos che ritornava verso la piscina. Strana creatura, pensò. Sembra che non sia simpatico a nessuno.
Si fermò silenziosamente a mezz'aria davanti alla grande finestra, e avanzò arditamente in quella direzione. E la varcò. E mentre lo faceva, avvertì con certezza di trovarsi al chiuso; che cosa faceva, quella parete invisibile… ritraeva gli orli esattamente attorno a lui, in modo che lui faceva parte della chiusura, mentre passava? Doveva essere qualcosa di simile.
Si guardò intorno. La prima cosa che vide fu la cella imbottita, l'argentea zucca alata — la macchina del tempo — con la porta aperta, come quando lui ne era uscito. C'erano le tende all'estremità della stanza, e strani apparecchi obliqui su una specie di sostegno massiccio al centro della stanza, alcune sedie, una specie di scrivania coperta da un mucchio di carte.
«Seace.»
Nessuna risposta. Attraversò la stanza, un po' intimidito, sedette su una delle sedie, o sgabelli. Chiamò un po' più forte, senza risultato. Accavvallò le gambe e attese, le disaccavallò e tornò ad accavallarle in direzione contraria. Dopo un po' tornò ad alzarsi e andò a sbirciare nella zucca argentea.
Non pensava che l'avrebbe colpito così duramente; pensava che non l'avrebbe colpito affatto. Ma lì, proprio lì, su quel liscio, morbido pavimento argenteo incurvato, lui era rimasto disteso più morto che vivo per anni per miglia incalcolabili a distanza di tutto ciò che aveva importanza per lui, persino il prezioso sudore inaridito sul suo corpo. Gli occhi gli bruciarono sotto lo stimolo delle lacrime. Laura! Laura! Sei morta? Essere morta ti rende più vicina a me? Sei diventata vecchia, Laura, il tuo dolce corpo si è raggrinzito e incartapecorito? E quando questo è accaduto, tu sei stata lieta che io non fossi lì a vedere? Laura, sai che darei qualsiasi cosa nella mia vita e anche la mia vita stessa pur di toccarti una sola volta… per toccarti anche se tu sei vecchia e io non lo sono?
Oppure… la fine, quella cosa terribile, definitiva, è accaduta mentre tu eri giovane? Il grande martello ha colpito la tua casa, e tu sei scomparsa in un istante di fuoco? O è stata la pioggia impalpabile del veleno, che ti iha fatto sanguinare dentro e vomitare e alzare la testa per guardare i tuoi meravigliosi capelli caduti sul guanciale?
Ti piaccio? gridò, in un urlo silenzioso, in un improvviso, tacito prorompere di gaiezza; ti piace Charlie con questo pannolino per neonato, blu notte orlato di rosso, e con questa giacca trasformabile indossata a rovescio? E questo assurdo colletto?
Si inginocchiò sulla soglia della macchina del tempo e si coprì la faccia con le mani.
Dopo un poco si alzò e andò a cercare qualcosa di concreto.
Mentre guardava, disse: «Sarò con te quando accadrà, Laura. O fino a che accadrà… Laura, forse moriremo insieme di vecchiaia, aspettando…». Accecato dai suoi sentimenti, si ritrovò a frugare tra le tende a una estremità della stanza, senza sapere in che modo fosse arrivato lì o che cosa stesse facendo. Dietro non c'era altro che la parete, ma c'era un ghirigoro e lo toccò. Apparve un'apertura simile a quella che aveva contenuto la sua colazione, ma non ne uscì alcuna lingua sporgente. Si chinò e guardò nell'interno illuminato, e vide una pila di scatolette trasparenti approssimativamente cubiche, e un libro.
Tirò fuori le scatolette, dapprima per pura curiosità, poi con crescente eccitazione. Le tolse ad una ad una, ma con la stessa cura le rimise a posto, una ad una, come le aveva trovate.
In una scatola c'era un chiodo, un chiodo arrugginito, con una striscia di metallo lucente che mostrava dove era stato tagliato, diagonalmente.
In una scatola c'era un pezzo di bustina di fiammiferi, stinta e rovinata dalla pioggia. E lui la conosceva, la conosceva! L'avrebbe riconosciuta ovunque. Era solo un frammento, ma veniva dal Dooley's Bar and Grill di Arch Street. Solo… solo che le poche lettere rimaste erano rovesciate…
In una scatola c'era una calendula secca. Non clamorosa, non uno dei bellissimi, miracolosi fiori ibridi dei ledom, solo il piccolo bocciolo d'una calendula secca.
In una scatola c'era una zolla di terra. Di quale terra? Era la terra che i suoi piedi avevano calpestato? Veniva dal misero sentiero di terra battura sotto la grande lanterna bianca su cui era dipinto il 61 quasi sbiadito? I denti della macchina del tempo avevano azzannato quella zolla, in un precedente tentativo?
E alla fine c'era un libro. Come tutto ciò che era lì, rifiutava di essere un rettangolo regolare; era un oggetto circolare dai contorni precisi quanto quelli di una ciambella e le linee, nell'interno erano disposte ad archi irregolari. (D'altra parte, se s'impara a scrivere senza spostare il gomito, non è meglio scrivere su linee arquate?). In ogni caso, si apriva lungo una specie di dorso, come deve fare un buon libro, e lui poteva leggerlo. Era scritto in ledom, ma lui sapeva leggerlo, e questo lo stupì non più di quanto lo avesse stupito accorgersi che lo sapeva parlare, anzi, lo stupì meno; aveva già provato sbalordimento, e quello bastava per tutto.
Innanzi tutto consisteva di una descrizione altamente tecnica di un procedimento, e poi c'erano parecchie pagine di annotazioni incolonnate, e con molte cancellature e correzioni, come se qualcuno avesse annotato qualche esperimento, qualche calibrazione. Poi c'erano molte pagine che recavano l'immagine di quattro quadranti, come quattro orologi o manometri, ma senza lancette. Verso la fine erano vuoti ma sui primi erano scarabocchiate le lancette e alcuni strani appunti. Mandato scarafaggio, non tornato. C'erano molte annotazioni non tornato , fino a una pagina sulla quale era scarabocchiato un immenso, trionfale punto esclamativo ledom. Era l'esperimento 18, e in grafia tremante c'era scritto: mandata noce, ritorno fiore. Charlie prese la scatola con il fiore e, dopo averla rigirata parecchie volte, distinse finalmente il numero 18.
Quei quadranti, quei quadranti… si girò di scatto e si precipitò verso il gruppo di strumenti bizzarri, al centro della stanza. Certo, c'erano quattro quadranti, e attorno all'orlo di ognuno un cursore, sistemato in modo da poter scorrere in cerchio attorno al quadrante. Vediamo, se sistemavi i quattro cursori secondo le istruzioni del libro, e poi… oh, sicuro, era così. Un interruttore era un interruttore in qualsiasi lingua e su questo poteva leggere ACCESO e SPENTO.
Tornò nell'angolo, voltò freneticamente le pagine. Esperimento 68… l'ultimo, prima che cominciassero le pagine vuote. Mandate pietre. Ritornato (nella fonetica ledom) Charlie Johns.
Strinse disperatamente il libro e cominciò a leggere da quella pagina la regolazione del diagramma, a impararla a memoria.
«Charlie? Sei qui, Charlie Johns?»
Seace!
Quando Seace, entrato da qualche invisibile porta dietro la macchina del tempo, girò attorno nell'angolo, Charlie era già riuscito a mettere a posto il libro. Ma non era riuscito a trovare in tempo il ghirigoro, e adesso era là ritto, con il ripostiglio aperto e la calendula morta e inscatolata tra le mani.
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