Ruotarono su se stessi, ed Eleanor spinse Fred indietro sul pavimento. Adesso era di fronte a lui ma ancora non lo guardava, tracciava l’eco dei suoi passi; e poi furono fianco a fianco, in un ritmo cadenzato, coi piedi e la gonna roteante e le stelle finte riflesse sul pavimento lucido, sugli schermi, sul viso immoto di Alis.
Eleanor eseguì una piroetta, senza guardare Fred, senza doverlo guardare, in perfetta sincronia con la piroetta di lui, e furono di nuovo fianco a fianco, intrecciarono passi in contrappunto, con le mani che quasi si toccavano e il viso di Eleanor immobile come quello di Alis, concentrato, dimentico di tutto. Fred accennò un movimento ondulatorio, ed Eleanor lo ripeté, e girò la testa e sorrise a Fred, un sorriso di piena consapevolezza e complicità e gioia assoluta.
Io ebbi il mio flash.
Di solito il klieg dà almeno qualche secondo di preavviso, il tempo sufficiente per fare qualcosa per rimandare l’attimo o chiudere gli occhi, ma non quella volta. Nessun preavviso, nessuna sfocatura, niente.
Un minuto ero appoggiato alla porta, a guardare Alis che guardava il tiptappare di Fred ed Eleanor, e un minuto dopo: fotogramma bloccato, tagliare!, stampare, come il flash di una macchina fotografica che ti esplode in faccia, solo che l’immagine che ti resta impressa sulla retina è chiara quanto la fotografia, e non sbiadisce, non se ne va.
Alzai la mano davanti agli occhi, come chi cerchi di schermarsi da un’esplosione nucleare, ma era troppo tardi. L’immagine si era già impressa a fuoco nella mia corteccia cerebrale.
Devo avere barcollato all’indietro, e forse ho anche urlato, perché quando riapersi gli occhi lei mi guardava allarmata, preoccupata.
— Ti è successo qualcosa? — Si alzò dal letto e mi prese per il braccio. — Stai bene?
— Sto benissimo — risposi. Benissimo. Alis aveva in mano il telecomando. Glielo presi e spensi il computer. Gli schermi divennero argentei e vuoti; c’era solo l’immagine di noi due in piedi davanti alla porta. E sovrimposta a quella un’altra immagine riflessa: il viso rapito, assorto di Alis che guardava Fred ed Eleanor danzare sul pavimento costellato di stelle finte.
— Vieni — dissi, e afferrai la mano di Alis.
— Dove andiamo?
In qualche posto. In qualunque posto. In un cinematografo dove proiettino qualche altro film. — A Hollywood — le risposi, trascinandola in corridoio. — A ballare nei film.
Rapido movimento orizzontale della macchina da presa. Campo medio: l’insegna della stazione LATT. Scritte sullo schermo: LOS ANGELES ISTANTRANSITO a grandi lettere rosa vivo, STAZIONE WESTWOOD in verde chiaro.
Prendemmo lo scivolo. Errore. La sezione posteriore era chiusa, ma lo scivolo era praticamente vuoto: poche crocchie di turi di ritorno dagli Universal Studios raggruppati al centro della stanza, un paio di drogati che dormivano con la schiena contro la parete sul fondo, tre tizi a ridosso della parete di fronte a noi che facevano il gioco delle tre carte sulla striscia gialla di sicurezza, una Marilyn solitaria.
I turi scrutavano ansiosi l’insegna delle stazioni, quasi avessero paura di perdersi la loro fermata. Figuriamoci. Il trasferimento da una stazione all’altra può anche essere istantaneo, ma lo scivolo impiega dieci minuti buoni a generare la regione di antimateria che produce lo spostamento, e poi ne occorrono altri cinque prima che si accendano le frecce che segnalano le uscite, e per tutto quel tempo nessuno va da nessuna parte.
I turi potevano anche rilassarsi e godersi lo show. Per quel che ce n’era. Una sola delle pareti era accesa, e su metà scorreva a ripetizione un raffica di spot pubblicitari dell’ILMGM, che evidentemente non sapeva ancora di essere stata assorbita. Al centro della parete, un leone digitalizzato ruggiva sotto lo slogan dello studio in color oro acceso: TUTTO È POSSIBILE! Lo schermo si oscurò, apparve una nebbia vorticosa. Una voce fuori campo annunciò: — ILMGM! Più stelle di quante ne esistano in cielo! — e poi si mise a recitare nomi, mentre le stelle spuntavano dalla nebbia. Vivien Leigh che ci veniva incontro in un’enorme gonna a crinolina; Arnold Schwarzenegger che passava su una motocicletta rombante; Charlie Chaplin che faceva roteare il suo bastone.
— Lavoriamo senza sosta per darvi le stelle più luminose del firmamento — disse la voce, il che significava le star sulle quali tutti stavano litigando per ottenerne il copyright. Marlene Dietrich, Macaulay Culkin all’età di dieci anni, Fred Astaire in frac e cappello a cilindro che camminava agile, sicuro, verso noi.
Avevo trascinato Alis fuori dalla casa dello studente per sfuggire agli schermi e alla beguine e a Fred che ballava il tip tap sul mio lobo frontale, per trovare qualcosa di diverso da guardare se mi fosse capitato un altro flash, e invece avevo solo scambiato il mio schermo con uno più grande.
L’altra parete era ancora peggio. Doveva essere più tardi di quanto credessi. Avevano smesso di trasmettere spot, e la parete era solo una lunga distesa a specchio. Come il pavimento lucido sul quale ballavano Fred Astaire ed Eleanor Powell, fianco a fianco, con le mani che quasi…
Puntai lo sguardo sulle immagini riflesse. I drogati parevano morti. Probabilmente avevano mandato giù capsule regalate da Hedda, convinti che fosse chocha. Marilyn si stava allenando davanti allo specchio a mettere il broncio, a spalancare la bocca in un’espressione di sorpresa assoluta, e abbassava le mani sulla gonna bianca per impedire che si sollevasse. La scena della grata di Quando la moglie è in vacanza.
I turi stavano ancora guardando l’insegna delle stazioni, che annunciava LA BREA TAR PITS. Anche Alis la scrutava, assorta, e persino nella luce fluorescente e lampeggiante della pubblicità dei futuri remake dell’ILMGM i suoi capelli avevano quel curioso effetto di un’illuminazione da dietro. Teneva i piedi divaricati e le mani protese in avanti, pronta a reagire a un movimento improvviso.
— Non avete scivoli a Riverwood, eh? — chiesi.
Lei sorrise. — Riverwood. È il posto dove vive Mickey Rooney in Musica indiavolata — disse. — Ce n’è solo uno molto piccolo a Galesburg. E ha i sedili.
— Senza sedili, nelle ore di punta si può inscatolare molta più gente. Guarda che non c’è bisogno di stare in quella posizione.
— Lo so. — Lei riavvicinò i piedi. — Ma io mi aspetto sempre che ci si muova.
— Ci siamo già mossi — ribattei, guardando l’insegna delle stazioni. Adesso eravamo a Pasadena. — Per un nanosecondo circa. Da stazione a stazione, e niente fermate intermedie. Tutto fatto con specchi.
Arrivai alla striscia gialla di sicurezza e tesi la mano verso la parete al mio fianco. — Solo che non sono specchi. Sono pannelli di antimateria che potresti attraversare con la mano. Trovati un dirigente di uno studio in caccia di donne e ti spiegherà tutto.
— Non è pericoloso? — chiese lei, abbassando gli occhi sulla striscia gialla.
— No, a meno che uno non cerchi di passarci attraverso, come fa a volte qualche svitato. Anni fa c’erano delle barriere, ma gli studios le hanno fatte togliere. Disturbavano i loro spot.
Lei si girò a guardare la parete di fronte. — È così grande!
— Dovresti vederlo di giorno. Di notte chiudono la sezione posteriore. Se no i drogati pisciano sul pavimento. Lì dietro c’è un’altra stanza. — Le indicai la parete sul fondo. — È grande il doppio di questa.
— Sembra una sala per le prove di uno spettacolo — disse Alis. — Come il teatro di Follie d’inverno. Qui dentro si potrebbe quasi ballare.
— Non ballerò — le dissi. — Non chiedermelo.
— Hai sbagliato film — sorrise lei. — Quello era Roberta.
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