Bussarono alla porta. Spensi lo schermo, poi decisi che uno schermo vuoto mi avrebbe tradito. — Notorious — dissi, e mi prese il panico. E se anche Ingrid Bergman avesse avuto la faccia di Alis? — Annulla. — Cercai di pensare a un altro film, un film qualunque. Tranne Athena e le sette sorelle.
— Tom, stai bene? — strillò Hedda, dall’altro lato della porta.
— Arrivo! — Fissai lo schermo vuoto. Saratoga ? No, c’era Ingrid anche lì; e comunque, se la cosa doveva succedere di continuo, meglio saperlo prima di richiamare qualcosa d’altro.
— Notorious — dissi sottovoce. — Fotogramma 54-119. — Aspettai che apparisse il viso di Ingrid.
— Tom! — urlò Hedda. — Ti senti male?
Cary Grant uscì dalla sala da ballo, e Ingrid lo seguì con gli occhi, ansiosa, a un passo dalle lacrime. E aveva la faccia di Ingrid, il che era un sollievo.
— Tom! — disse Hedda. Le aprii la porta.
Hedda entrò e mi porse qualche capsula azzurra. — Prendine due. Con dell’acqua. Perché non aprivi?
— Mi stavo sbarazzando delle prove incriminanti. — Indicai lo schermo. — Trentaquattro bottiglie di champagne.
— Ho visto quel film — disse lei, avvicinandosi allo schermo. — È ambientato in Brasile. Ci sono riprese di Rio de Janeiro e del Pan di Zucchero.
— Hai ragione come sempre — commentai. Poi, in tono distratto: — A proposito, tu che sai tutto, Hedda… Sai se il copyright su Fred Astaire è stato attribuito?
— No. L’ILMGM vuole ricorrere in appello.
— Quanto ci vuole perché il ridigaine faccia effetto? — Lo chiesi subito, prima che lei potesse domandarmi perché mi interessassi a Fred Astaire.
— Dipende da quanto alcol hai in circolo. Da come hai bevuto nelle ultime sei settimane.
— Sei “settimane”?
— Scherzo. Quattro ore, forse meno. Sei sicuro di volerlo prendere? E se ricominciassi ad avere dei flash?
Non le chiesi come facesse a sapere che avevo dei flash. Dopo tutto, era Hedda.
Mi passò un bicchiere. — Manda giù molta acqua. E fai tutta la pipì che puoi. — Una pausa. — Sul serio, cosa ti sta succedendo?
— Faccio terra bruciata. — Mi girai verso il fotogramma immobile sullo schermo. Cancellai un’altra bottiglia di champagne.
Lei sì chinò sulle mie spalle. — È la scena dove finiscono lo champagne e Claude Reins scende in cantina e ci trova Cary Grant?
— Non dopo che me la sarò ripassata io. Lo champagne diventerà gelato. Secondo te l’uranio dovrebbe essere nascosto nel freezer o nel sacco di salgemma?
Lei mi studiò, seria. — “Secondo me” c’è qualcosa che non va. Cos’è?
— Sono in ritardo di quattro settimane con l’elenco di Mayer, e lui mi sta strangolando, ecco cosa c’è. Sei sicura che sia ridigaine? — Scrutai le capsule. — Potrebbero essere di tutto.
— Sono sicura. — Hedda continuava a guardarmi sospettosa.
Infilai le capsule in bocca e allungai la mano verso il bicchiere di bourbon.
Hedda me lo strappò via. — Devi prenderle con “l’acqua”. — Andò in bagno. Sentii il gorgoglio del bourbon versato nel lavandino.
Hedda riemerse dal bagno e mi porse un bicchiere d’acqua. — Bevine il più possibile. Ti aiuterà a eliminare più in fretta il liquore. Niente alcol. — Aprì l’armadio, tastò con la mano, tirò fuori una bottiglia di vodka.
— “Niente” alcol — ripeté. Svitò il coperchio e tornò in bagno a versare nel lavandino. — Hai altre bottiglie?
— Perché? — le chiesi, buttandomi sul letto. — Perché hai deciso di smetterla con la chocha ?
— Te l’ho detto, ne sono uscita. Alzati.
Obbedii, e lei si inginocchiò e si mise a tastare sotto il letto.
— Ecco perché so come ti sentirai dopo avere preso il ridigaine — disse, portando allo scoperto una bottiglia di champagne. — Ti verrà voglia di bere, ma non lo fare. Vomiteresti tutto. E intendo proprio tutto. — Giocherellò col tappo della bottiglia. — Quindi, non bere. E non cercare di fare niente. Sdraiati appena cominci a sentire qualcosa. Mal di testa, convulsioni. E resta sdraiato. Potresti avere allucinazioni. Serpenti, mostri…
— Conigli alti un metro e ottanta che si chiamano Harvey.
— Non sto scherzando. Quando l’ho preso ho avuto l’impressione di morire. E scrollarsi di dosso la chocha è molto più semplice che liberarsi dall’alcol.
— Perché hai smesso? — chiesi.
Lei mi scoccò un’occhiata di sbieco e ricominciò a giocherellare col tappo. — Pensavo che così qualcuno si sarebbe accorto di me.
— Ed è successo?
— No — rispose lei, e rimise le mani sul tappo. — Perché mi hai chiamata e mi hai chiesto di portarti il ridigaine?
— Te l’ho detto. Mayer…
Hedda fece saltare il tappo. — Mayer è a New York, in cerca di sostenitori per il suo nuovo boss che, stando a voci di corridoio, è sul punto di essere silurato. Pare che ai pezzi grossi dell’ILMGM non vada a genio il suo moralismo d’accatto. Per lo meno quando concerne loro. — Versò lo champagne in bagno e tornò da me. — Hai dell’altro champagne?
— A fiumi. — Mi sedetti al computer. — Fotogramma successivo — dissi, e sullo schermo apparve una marea di bottiglie di champagne. — Vuoi svuotare anche queste? — Mi girai, col sorriso sulle labbra.
Lei mi fissava molto seria. — Qual è il vero problema?
— Fotogramma successivo — dissi. Sullo schermo apparve Ingrid, ansiosa. I suoi capelli erano un’aureola. Feci sparire la coppa di champagne che teneva in mano.
— L’hai rivista, vero? — chiese Hedda.
Centro perfetto.
— Chi? — ribattei, anche se non avrei fregato nessuno. — Sì, l’ho rivista. — Feci sparire Notorious. — Vieni qui — dissi. — Voglio farti vedere una cosa.
— Sette spose per sette fratelli — dissi al computer. — Fotogramma 25-118.
Sullo schermo c’era Jean Povvell, seduta sul carro con un cestino.
— Avanti in tempo reale — dissi, e Jane Powell diede il cestino a Julie Newmar.
— Credevo ci fosse in ballo una causa legale — disse Hedda, alle mie spalle.
— Su chi? Jane Powell o Howard Keel?
— Russ Tamblyn — rispose lei, indicando l’attore. Era salito sul carro e stava guardando con occhi languidi la biondina, Alice. — La Virtusonic lo ha usato nei suoi pornohorror, e l’ILMGM non è contenta. Sostiene che c’è stato un abuso di copyright.
Russ Tamblyn, con un’aria molto giovane e innocente che probabilmente era il vero succo della situazione, se ne andò con Alice, e Howard Keel sollevò Jane Powell per aria e la tirò giù.
— Stop — dissi al computer. — Voglio che tu guardi la scena seguente — dissi a Hedda. — Le facce. Avanti in tempo reale. — E i ballerini formarono due file e si fecero l’inchino a vicenda.
Non sapevo che reazione mi aspettassi da Hedda. Magari che ansimasse e si stringesse le mani al cuore come Lillian Gish. O che si girasse verso me a metà del numero e chiedesse: — Di preciso cosa dovrei vedere?
Non fece nessuna delle due cose. Guardò l’intera scena, muta e immobile, con lo sguardo a fuoco sullo schermo quasi ai livelli di Alis; poi disse, calma: — Non credevo che ce l’avrebbe fatta.
Per un attimo non riuscii a decifrare le sue parole per il ruggito che avevo nella testa, il ruggito che diceva: — È lei. Non è un flash. È lei.
— Tutti quei discorsi sul fatto di trovare un maestro di ballo — stava dicendo Hedda. — Tutte quelle chiacchiere su Fred Astaire. Non avrei mai pensato che avrebbe…
— Non avresti mai pensato che avrebbe fatto cosa? — chiesi, stordito.
— Questo. — Hedda agitò la mano in direzione dello schermo, dove stavano prendendo forma i lati del fienile. — Che sarebbe finita a fare la squinzia di qualcuno — disse. — Che si sarebbe prostituita. Arresa. Venduta. — Gesticolò di nuovo verso lo schermo. — Mayer ti ha detto per quale dirigente hai fatto il lavoro?
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