— Anche tu sei uno zombie.
— Sono un fantasma. — Le sorrise. — Comunque una parte di me starà con te, se vorrai parlarmi. E un’altra parte se ne andrà quando loro faranno il cambiamento.
— Tutto tornerà com’era una volta?
Lui scosse il capo. — Non sarà mai più lo stesso. E… guarda, io queste cose non le capisco bene, ma non manca molto a un altro cambiamento. Niente sarà mai più uguale a prima.
Suzy lo fissò negli occhi. — Sei venuto così nudo per tentarmi?
Cary abbassò lo sguardo su se stesso. — Non ci avevo neanche pensato — disse. — Questo ti dimostra quanto sto diventando indifferente a certe cose. Non vuoi cambiare idea?
Lei scosse il capo con fermezza. — Io sono l’unica che non si è ammalata — disse.
— Be’, non proprio l’unica. Ce ne sono altri venti o venticinque. Ci prendiamo cura di loro meglio che possiamo.
Lei avrebbe preferito essere l’unica. — Molto gentili! — esclamò, sarcastica.
— Comunque tienti la coperta. Quando ci sarà il cambiamento avvolgitela attorno, è stoffa vera. Lasceremo qui un sacco di roba da mangiare.
— Bene.
— Suppongo che tu stia per svegliarti, adesso. Tolgo il disturbo. Potrai anche vederci quando sarai sveglia. Per un po’.
Suzy annuì.
— Non gettarla via — la avvertì lui. — Altrimenti rischieresti di restare ferita.
— Non la getterò.
— Bene. — Lui allungò una mano e le sfiorò col palmo le braccia incrociate.
Lei aprì gli occhi. L’alba spandeva pallide foschie arancione oltre le tubature. La superficie della fossetta era fredda, come quella dei tubi.
Suzy si strinse addosso la coperta e attese.
In piedi nella camera d’osservazione, con le mani poggiate sul tavolo, Paulsen-Fuchs teneva gli occhi bassi. Non sopportava più di guardare ciò che giaceva sul lettino del laboratorio sterile.
Bernard aveva perduto le sue sembianze umane quel mattino presto. La telecamera aveva registrato la trasformazione. Adesso al suo posto c’era un’informe massa di sostanza marrone, parti della quale ricadevano ai lati fin sul pavimento. La massa era percorsa da continui movimenti, talvolta da brevi e violenti fremiti.
Prima di perdere l’ultima possibilità di muoversi Bernard aveva preso la tastiera del terminale, poggiandola sul lettuccio. Il cavo sporgeva ora su un fianco della massa, e la tastiera doveva essere da qualche parte sotto o dentro di essa.
E Bernard, benché non potesse parlare, stava ancora facendone uso per comunicare. Sul monitor del laboratorio scorreva un rapido flusso di parole, le registrazioni dell’uomo inerenti alla sua trasformazione.
Molto di ciò che la tastiera trasmetteva allo schermo era virtualmente inintellegibile. Forse Bernard era ormai lui stesso qualcosa di simile a un noocita.
Quella trasformazione, comunque, non rendeva per nulla più facile la decisione di Paulsen-Fuchs. I manifestanti — e il Governo, che non aveva osato opporsi a loro d’autorità — avevano preteso che Bernard fosse ucciso e il laboratorio accuratamente sterilizzato.
Erano ormai oltre due milioni là fuori, e se la loro richiesta non fosse stata accolta avrebbero potuto distruggere la Pharmek fino all’ultimo mattone. L’esercito aveva dichiarato che non intendeva proteggere le istallazioni; la polizia s’era lavata le mani da ogni responsabilità adducendo diverse scuse. Non c’era niente che Paulsen-Fuchs potesse fare per fermarli; nello stabilimento erano rimasti soltanto cinquanta impiegati, poiché tutti gli altri erano stati evacuati per la loro sicurezza.
Non di rado lui stesso aveva considerato l’idea di andarsene, semplicemente, trasferendosi nella sua villa in Spagna per isolarsi da tutto. Per dimenticare quel che era successo, per non pensare più a ciò che il suo amico Michael Bernard aveva portato con sé in Germania.
Ma Heinz Paulsen-Fuchs era sulla breccia da troppo tempo per volersi ritirare a quel modo. Quand’era un ragazzotto aveva visto i russi entrare a Berlino. S’era spogliato delle vestigia del suo poco entusiastico passato nazista, cercando di restare il più possibile nell’anonimato, ma non aveva permesso alla vita di schiacciarlo. E durante gli anni dell’occupazione aveva lavorato in tre posti diversi. Era rimasto a Berlino fino al 1955, quando con altri due colleghi aveva messo in piedi la Pharmek. La compagnia aveva quasi subito fatto bancarotta, nel panico seguito al Talidomide; ma lui non aveva gettato la spugna.
No, lui non avrebbe voltato le spalle a quell’ultima responsabilità. Toccava a lui dunque premere l’interruttore che avrebbe fatto saturare il laboratorio di gas sterilizzanti. E avrebbe istruito di persona gli uomini che sarebbero entrati a terminare l’opera di distruzione. Quella era una sconfitta ma almeno lui l’avrebbe affrontata sul posto, non rintanato in Spagna.
Non aveva idea di quel che avrebbero fatto i manifestanti una volta morto Bernard. Lentamente usci dalla camera d’osservazione, passò nel laboratorio e sedette davanti a un monitor su cui scorreva ancora il messaggio in registrazione.
Istruì il computer per rimandarglielo dall’inizio. Poteva leggere abbastanza in fretta da seguirlo, ma voleva rivedere ciò che l’amico aveva già scritto per capire meglio il senso dell’insieme.
Finale del diario elettronico di Bernard. Inizio ore 08.35.
Gogarty: Se ne andranno entro poche settimane.
Sì, comunicano fra loro. Parenti minori. Frammenti dell’ epidemia di cui non sappiamo nulla - Europa, Asia, Australia - gente senza sintomi. Occhi e orecchi, radunandosi, imparando, mietendo l’irrilevante raccolto delle nostre vite e della nostra storia. Meravigliose spie.
Paul: memoria razziale. Stessi meccanismi biologici. Ci sono molte vite in ognuno di noi: nel sangue, nei tessuti.
Confini dello spazio-tempo locale. Sono in troppi. Gogarty: devono attraversare… non possono farci niente. Devono avvantaggiarsi. Noi (tu) naturalmente non possiamo, e forse non vogliamo, farci niente.
La grande impresa sono loro.
Loro amano. Loro collaborano. Sono disciplinati ma liberi; conoscono la morte ma sono immortali.
Ora mi conoscono, in lungo e in largo. Tutti i miei pensieri e i miei impulsi. Io sono un soggetto della loro arte, della loro meravigliosa fantascienza vivente. Mi hanno duplicato un milione di volte. Chi dei tanti me scrive questo? Non lo so. L’originale non esiste più.
Posso viaggiare in un milione di direzioni, vivere un milione di vite (e non solo nella Musica del Sangue, ma in un universo di Pensiero Immaginazione e Fantasia!) e poi riunire i miei doppioni, tenere conferenze con loro e ripartire ancora. Narcisismo oltre ogni orgoglio, comunanza molto superiore al semplice vivere insieme. (E lei: loro l’hanno trovata!)
Ognuno di loro può avere mille, diecimila, un milione di controparti a seconda della loro qualifica e funzione. Nessuno ha bisogno di morire, ma col tempo tutto o quasi tutto cambierà. E a un certo momento la maggior parte di questi me non avrà più somiglianza col presente me, perché siamo soggetti a cambiare. Le nostre menti lavorano sulle infinite varietà della vita.
Paul, vorrei che tu potessi unirti a noi.
(Interruzione nel testo. Dalle 08.47 alle 10.23)
Non più usando i pulsanti. Dentro la tastiera, dentro l’elettronica.
So che tu devi distruggere.
Aspetta. Aspetta fino 11,30. Dai questo tempo a vecchio amico.
Io non piace vecchio me stesso, Paul. Rinuncio a lui, a maggior parte di lui. Rivissute e riplasmate intere sezioni di miei 52 anni. Uno può diventare santo qui, o esplorare moltitudini di peccati. Quale santo può non conoscere il peccato?
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