Greg Bear - L'ultima fase

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Vergil Ulam, brillante ricercatore dei Genetron Labs, sta lavorando segretamente ad un esperimento che promette risultati sensazionali, e cioè la produzione di nuclei intelligenti di materia cellulare, capaci di evolversi e di apprendere con straordinaria rapidità. Ma quando Ulam infrange le norme di sicurezza del laboratorio e viene licenziato, si rifiuta di distruggere il frutto delle sue ricerche, come gli è stato ordinato, e decide invece di iniettarsi nel sangue le colonie cellulari, e diventare così egli stesso la cavia di un nuovo straordinario esperimento. Ma sarà il primo di un incredibile processo di mutazione e trasformazione, i cui limiti non sono facilmente immaginabili, perché infatti è subito chiaro che questa forma di intelligenza virale può assorbire e riplasmare qualsiasi materia vivente. Un’epidemia assolutamente inattaccabile, un vero e proprio universo di miliardi di cellule senzienti in frenetica espansione, che lentamente inghiottono l’America del Nord, trasformandola in uno scenario “alieno” che suscita al tempo stesso orrore e meraviglia. Ma si può parlare di catastrofe? O non è piuttosto un nuovo gradino nella scala dell’evoluzione? E che ne sarà dell’umanità, letteralmente trasfigurata da questi microscopici organismi che rappresentano una nuova dimensione di ciò che si può concepire come “vita”?
Nominato per il premio Nebula in 1985.
Nominato per i premi Hugo, Campbell e BSFA in 1976.

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TELOFASE

FEBBRAIO, L’ANNO SUCCESSIVO

XLV

Camusfearna, Galles

Le nevicate e i rigori invernali avevano colpito duramente l’Inghilterra. Quella notte nuvole nere e vellutate oscuravano le stelle da Anglesey a Margate, e da esse fiocchi di luce soffusa verde azzurrino cadevano sulla terra e sul mare. Quando toccavano l’acqua i fiocchi si spegnevano all’istante. Sulla terra invece si ammucchiavano in morbidi mantelli luminescenti, che crepitavano come carbonella sotto le suole delle scarpe.

Da mesi ormai contro quel freddo ogni sistema di riscaldamento, elettrico o a carbone, s’era dimostrato poco efficace. I bruciatori a metano avevano conosciuto popolarità per il solo motivo che non c’era niente di meglio, ma anch’essi erano piuttosto rari perché le maccb ne che li fabbricavano s’erano rivelate altrettanto poco efficienti.

Le antiquate stufe a carbone e i fornelli a legna erano stati resuscitati. L’Inghilterra e l’Europa stavano lentamente e silenziosamente scivolando verso un passato ancor più oscuro e primitivo. Protestare era inutile: le forze all’opera erano soverchianti quanto insondabili.

Moltissime abitazioni, in città e in campagna, non disponendo d’impianti abbastanza primitivi semplicemente restavano al freddo. Con sorpresa delle autorità, tuttavia, il numero dei morti e dei malati continuava a diminuire.

Non c’erano state splosioni di malattie epidemiche. Nessuno riusciva a capirne il perché.

La produzione di vino, birra e liquori industriali era cessata. I forni avevano radicalmente cambiato faccia, dedicandosi alla cottura di pane non lievitato e alla pasta. I microscopici organismi della terra e dell’acqua erano cambiati col clima, imprevedibili quanto il mutamento che influiva sulle macchine e sull’elettricità.

Nell’Europa dell’Est e in Asia si moriva di fame, il che aveva rimesso in auge (o confermato) il concetto della Volontà di Dio. Le più vaste cornucopie del mondo non erano ormai raggiungibili e non producevano niente.

La guerra non era più una soluzione possibile. La radio, gli autocarri e le automobili, gli aeroplani, i missili e le bombe non erano oggetti sul cui funzionamento si potesse contare. Alcune nazioni del Medio Oriente esportavano ancora prodotti agricoli, ma senza molto entusiasmo. Anche lì il tempo era cambiato, e per molte settimane la neve aveva sepolto Damasco, Beirut e Gerusalemme.

Chiamarlo un inverno di gelo universale era dunque come mettere in quelle parole tutto ciò che era andato male e continuava ad andare male, non soltanto il tempo.

La Citroen di Paulsen-Fuchs sputacchiava fumo arrecando sull’impervia stradicciola asfaltata, con le catene che crepitavano nella neve. Con attenzione l’uomo premette l’acceleratore lungo la lieve salita, cercando di prevenire slittamenti che l’avrebbero mandato fuori strada. Sul sedile accando a lui c’era un cesto da picnic, occupato da una pila di libri gialli e da alcuni giornali arrotolati intorno a una bottiglia.

Pochi macchinari funzionavano ancora in modo accettabile. La Pharmek era stata chiusa per sei mesi a causa di gravi problemi di manutenzione. All’inizio le industrie avevano assunto molta manodopera per rimpiazzare le macchine, ma ben presto era stato chiaro che senza queste ultime nessuna fabbrica poteva essere tenuta in piedi.

Si fermò al palo segnaletico di un incrocio e abbassò il vetro per leggere meglio le indicazioni. Una tavoletta dipinta a mano diceva: CAMUSFEARNA — 2 Km.

Tutto il Galles sembrava ricoperto di alghe marine fosforescenti. Dal cielo nero scendevano galassie di fiocchi scintillanti, ciascuno carico di una misteriosa energia luminosa. Tirò su il vetro e fissò quelli che cadevano sul parabrezza: lampeggiavano lievemente quando il tergicristallo li riuniva spazzandoli da parte.

I fari della vettura erano spenti benché fosse notte. A consentirgli la visuale era l’immenso lucore della distesa nevosa. Ma dall’impianto di riscaldamento provenivano orridi gorgoglii, e l’uomo si affrettò a ripartire.

Quindici minuti dopo svoltò a destra in una stretta viuzza ghiaiosa, non troppo innevata, e scese verso l’abitato di Camusfearna. Era composto da appena quattro edifici e da un piccolo porticciolo, in quel momento del tutto chiuso nella morsa del ghiaccio. Le case con le loro luci giallastre erano chiaramente visibili attraverso la neve, ma l’oceano al di là di esse era nero e vuoto come il cielo.

L’ultima casa sul lato nord, aveva detto Gogarty. Paulsen-Fuchs prese la curva troppo larga, sobbalzò sul terriccio fra i cespugli congelati e per riguadagnare la strada fu costretto a far lavorare la marcia indietro.

Non s’era mai gettato in un’impresa così rischiosa da trent’anni a quella parte. Il motore della Citroen ansimò, gemette e si fermò del tutto a soli dieci metri dal piccolo garage malridotto. Una nuvola di vapore si alzò incontro ai baluginanti fiocchi di neve.

L’abitazione di Gogarty era un vecchissimo cottage intonacato di bianco, ad un piano e squadrato come un mattone, con un tetto in piatte lastre di ardesia. Costruito in tavole di legno e lamiera ondulata il garage sembrava appoggiarsi all’edificio per maggiore sicurezza. In quel momento fu aperto dall’interno, e la luce gialla che veniva dalla casa si aggiunse all’universale verde-azzurro della neve. Paulsen-Fuchs tolse la bottiglia dal cesto, se la ficcò in una tasca del soprabito e uscì dalla vettura, lasciandosi dietro una serie d’impronte che baluginavano più intensamente.

— Santo cielo! — esclamò Gogarty, andandogli incontro. — Non mi aspettavo che ti mettessi in viaggio con questo tempo.

— Già — ammise Paulsen-Fuchs. — Le follie di un vecchio sciocco annoiato, no?

— Vieni dentro. Ho un caminetto… grazie a Dio almeno il legno brucia ancora! E tè caldo, caffè e cos’altro vuoi.

— Whisky irlandese! — dichiarò Paulsen-Fuchs battendo le mani guantate.

— Be’ — sospirò Gogarty conducendolo in casa, — Qui siamo nel Galles, e il whisky scarseggia ovunque. Mi addolora non poterti accontentare.

— Ho portato il mio. — Paulsen-Fuchs si tolse di tasca la bottiglia di Glenlivet. — Un nettare ormai raro e costoso.

La fiamma crepitava e scoppiettava piacevolmente nel camino di pietra, incrementando l’incerta luce elettrica. L’interno del cottage era pieno di scrivanie — tre nel solo soggiorno — e di scaffali per libri. C’erano poi un computer alimentato a batterie (Da tre mesi non funziona — disse Gogarty) un mobile di vetro colmo di conchiglie e di pesci in bottiglia, un vecchio divano di velluto rosa, una macchina per scrivere Olympia non elettrica (in quel momento un oggetto prezioso) e un tavolo da disegno ricoperto di cianografie srotolate. Le pareti erano decorate con stampe floreali ottocentesche.

Gogarty tolse la teiera dal fuoco e riempì due tazze. Paulsen-Fuchs sedette in un seggiolone tarlato, accettò una delle tazze (era birra bollente) e la sorseggiò di gusto. Due gatti, un tigrato ispido e dalle sfumature arancio e un persiano nero dal muso rincagnato, attraversarono la stanza per fermarsi di fronte al focolare, fissandolo con occhi pigramente insospettiti.

— Più tardi ci faremo un whisky insieme — lo avvertì Gogarty, sedendo su un panchetto davanti a lui. — Ma ora credo che dovresti dare un’occhiata a una cosa.

— Ai nostri fantasmi? — chiese lui, divertito dalla sua espressione.

Gogarty annuì con serietà frugandosi nella tasca interna della giacca. Ne tolse un foglio ripiegato, di una carta bianchissima, e lo porse all’ospite. — È anche per te. Intestato a noi due. Ma è arrivato due giorni fa nella mia cassetta… malgrado che il postino non passi da una settimana. Qui siamo fuori mano. Le lettere per te le imposto sempre a Pwllheli.

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