«Amano tutto ciò» disse Klorissa. «Spingersi e tirarsi e bisticciare e cadere e rialzarsi e comunque toccarsi. Cieli azzurri! Come fanno i bambini a riuscire a crescere?»
«Che cosa fanno quei bambini più grandi?» chiese Baley. Indicò un gruppo di ragazzi isolati che stavano da una parte.
«Visionano. Non sono in stato di presenza personale. Visionando possono camminare insieme, parlare insieme, correre insieme, giocare insieme. Tutto tranne il contatto fisico.»
«Dove vanno i bambini, quando lasciano questo posto?»
«Alle loro tenute. In media il numero delle morti è pari al numero dei rilasciati.»
«Alle tenute dei loro genitori?»
«Cieli azzurri, no! Sarebbe una sorprendente coincidenza, non le pare?, che un genitore morisse proprio durante l'età del rilascio di suo figlio. No, i bambini prendono le tenute diventate vacanti. Comunque non saprei se qualcuno di loro sarebbe particolarmente felice a vivere in una casa che una volta era appartenuta ai suoi genitori, naturalmente supponendo che sapessero chi sono i loro genitori.»
«Non lo sanno?»
Lei alzò le sopracciglia. «E perché dovrebbero?»
«I genitori non vengono a visitare i figli, qui?»
«Che razza di mente ha, lei! Perché dovrebbero desiderarlo?»
«Non le dispiace» chiese Baley «se chiarisco una cosa per mia conoscenza? È maleducazione chiedere a una persona se ha bambini?»
«E una domanda intima, non le sembra?»
«In un certo senso.»
«Io sono indurita. I bambini sono il mio lavoro. L'altra gente non lo è.»
«Lei ha bambini?»
Il pomo d'Adamo di Klorissa le fece in gola un leggero ma chiaramente percettibile movimento mentre inghiottiva. «Me lo merito, immagino. E lei si merita una risposta. No, non ne ho.»
«È sposata?»
«Sì, e ho una mia tenuta, e sarei là, se non fosse per questa emergenza. Non sono sicura di poter controllare tutti i robot, se non sono qui di persona.»
Si girò con aria infelice, per poi fare un segno. «Ora uno è caduto, e naturalmente sta piangendo.»
Un robot correva verso di lui, divorando lo spazio a grandi passi.
«Sarà raccolto,» commentò Klorissa «abbracciato e, se ci fosse un danno effettivo, mi chiamerebbero. Spero di non doverlo fare» aggiunse nervosamente.
Baley inspirò profondamente. Notò, a una ventina di metri sulla sua sinistra, tre alberi che formavano un piccolo triangolo. Camminò in quella direzione, l'erba morbida e repellente sotto i piedi, disgustosa nella sua sofficità (come camminare su carne in putrefazione, e al pensiero quasi vomitò).
Infine vi fu in mezzo con la schiena contro un tronco. Era quasi come essere circondato da muri imperfetti. Il sole era solo un'ondeggiante serie di barbagli attraverso le fronde, così frammentato da perdere quasi tutto l'orrore.
Klorissa lo guardava dal sentiero, poi lentamente dimezzò la distanza.
«Le dispiace se resto un po' qui?» chiese Baley.
«Prosegua» disse Klorissa.
«Una volta che i giovani sono usciti di qui, come fanno a corteggiarsi?»
«Corteggiarsi?»
«Conoscersi l'un l'altro» chiarì Baley, chiedendosi vagamente come si potesse esprimere l'idea con sicurezza, «in modo da potersi sposare.»
«Non è un problema loro» rispose Klorissa. «Vengono accoppiati in base all'analisi dei geni, di solito quando sono molto giovani. È un modo ragionevole, no?»
«E loro sono d'accordo?»
«Di sposarsi? Mai! È un processo molto traumatico. Fin dall'inizio devono abituarsi l'uno all'altra e il vedersi un po' tutti i giorni, una volta passata la nausea iniziale, fa miracoli.»
«E se a loro il partner non piace?»
«Cosa? Se l'analisi dei geni indica compatibilità, che differenza fa se…»
«Capisco» si affrettò a dire Baley. Pensava alla Terra e sospirò.
«C'è qualcosa d'altro che vorrebbe sapere?» chiese Klorissa.
Baley si chiese se fosse profittevole prolungare la visita. Non gli sarebbe dispiaciuto farla finita con Klorissa e l'ingegneria fetale, in modo di passare alla mossa successiva.
Aprì la bocca per esprimersi in questo senso, quando Klorissa si mise a chiamare qualcosa lontano. «Ragazzo! Tu, laggiù! Che cosa fai?» Poi, girandosi sulla spalla: «Terrestre! Baley! Attento! Attento! ».
Baley quasi non la capì. Reagì al tono d'urgenza della sua voce. Lo sforzo nervoso che teneva tese le sue emozioni si allargò di scatto per fiammeggiare nel panico. Tutto il terrore dell'aria aperta e della cupola senza fine del cielo gli irruppe addosso.
Baley parlò inarticolatamente. Udì la sua bocca emettere suoni senza significato e si sentì cadere sulle ginocchia e lentamente rotolare di fianco come se osservasse l'azione da lontano.
Ancora da lontano udì il ronzio sospirante che fendeva l'aria sopra di lui e terminava con un suono secco.
Baley chiuse gli occhi e le sue dita afferrarono una piccola radice affiorante, con le unghie affondate nello sporco.
Riaprì gli occhi (doveva essere stato solo qualche momento dopo). Klorissa stava rimproverando bruscamente un ragazzo che rimaneva a distanza. Un robot stava silenzioso vicino a Klorissa. Baley ebbe solo il tempo di notare che il giovane aveva in mano un oggetto teso con una corda prima che gli occhi gli deviassero altrove.
Respirando pesantemente Baley lottò per alzarsi in piedi. Fissava l'asticella di metallo lucido infissa nel tronco contro cui era stato appoggiato. La tirò e venne fuori con facilità. Non era penetrata profondamente. Guardò la punta senza toccarla. Era smussata, ma sarebbe stata sufficiente a lacerargli la pelle, se non si fosse lasciato cadere.
Gli ci vollero due tentativi, prima di riuscire a muovere le gambe. Fece un passo verso Klorissa e chiamò. «Tu. Ragazzo.»
Klorissa si voltò, con la faccia rossa. «È stato un incidente» disse. «Si è fatto male?»
«No! E questa cos'è?»
«È una freccia. È stata lanciata da un arco, che fa fare il lavoro a una corda tesa.»
«Così» gridò impudentemente il ragazzo, e tirò un'altra freccia in aria per poi scoppiare a ridere. Aveva i capelli chiari e il corpo flessuoso.
«Sarai punito» disse Klorissa. «E ora vattene!»
«Aspetta, aspetta» gridò Baley. Si sfregava un ginocchio, spellato da un sasso nella caduta. «Ho qualche domanda da farti. Come ti chiami?»
«Bik» disse il ragazzo con noncuranza.
«L'hai tirata a me la freccia, Bik?»
«Esatto.»
«Ti rendi conto che avresti potuto colpirmi, se non mi avessero avvisato in tempo di abbassarmi?»
Bik scrollò le spalle. «Ho tirato per colpire.»
Klorìssa si affrettò a parlare. «Lasci che le spieghi. Il tiro con l'arco è uno sport incoraggiato. È competitivo senza richiedere contatti. Facciamo delle gare tra i ragazzi usando la sola visione. Ora temo che qualche ragazzo tiri contro i robot. Lo diverte e ai robot non fa male. Io sono l'unico adulto della tenuta, e quando il ragazzo l'ha vista deve aver pensato che lei fosse un robot.»
Baley ascoltava. La mente gli si stava schiarendo e la naturale aria cocciuta del suo volto s'intensificò. «Bik,» disse «pensavi che io fossi un robot?»
«No» disse il ragazzo. «Tu sei un terrestre.»
«Va bene. Va', ora.»
Bik si girò e si allontanò fischiettando. Baley si rivolse al robot. «Tu! Come ha fatto il ragazzo a sapere che ero un terrestre? Oppure non eri con lui quando ha tirato?»
«Ero con lui, padrone. Gliel'ho detto io che lei era terrestre.»
«Gli hai detto che cos'era un terrestre?»
«Sì, padrone.»
«E che cos'è un terrestre?»
«Un tipo umano inferiore a cui non dovrebbe essere permesso di mettere piede su Solaria, perché porta malattie, padrone.»
«E chi ti ha detto questo, ragazzo?»
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