C'erano centinaia di lettini pieni di bambini che strillavano o dormivano o si nutrivano. C'erano sale giochi per quelli che cominciavano ad andare a quattro zampe.
«Neanche a questa età sono tanto male,» disse con astio Klorissa «anche se tengono occupato un enorme numero di robot. Finché non arrivano a camminare ci vuole praticamente un robot per bambino.»
«E questo perché?»
«Se non ricevono attenzione individuale, si ammalano.»
Baley annuì. «Sì, immagino che non si possa passare sopra alla necessità di affetto.»
Klorissa fremette. «I bambini richiedono attenzione» disse brusca.
«Sono un po' sorpreso che dei robot riescano a soddisfare la necessità di affetto.»
Lei roteò verso Baley, con la distanza tra loro che non era sufficiente a nascondere la sua contrarietà. «Ora senta, Baley, se cerca di scioccarmi usando termini spiacevoli, non ce la farà. Cieli azzurri, non sia infantile.»
«Scioccarla?»
«Anch'io posso usare quella parola. Affetto! Se vuole c'è anche una parola di cinque lettere. So dire anche quella. Amore! Amore! Ora, anche se non rientra nelle sue abitudini, si comporti bene.»
Baley non s'ingolfò in una discussione sull'oscenità. «Allora,» disse «i robot possono dare l'attenzione necessaria?»
«Ovviamente, se no questa fattoria non sarebbe il successo che è. Giocano con il bambino. Si sdraiano vicino a lui e lo coccolano. Al bambino non importa nulla che si tratti di un robot. Ma poi le cose diventano più difficili tra i tre e i dieci.»
«Oh?»
«Durante questo periodo i bambini insistono nel giocare gli uni con gli altri. Del tutto indiscriminatamente.»
«E li lasciate fare.»
«Dobbiamo, ma non dimentichiamo mai l'obbligo che abbiamo di insegnar loro i requisiti dell'età adulta. Ciascuno ha una camera separata che può essere chiusa. Fin dall'inizio devono dormire soli. Su questo siamo irremovibili. E poi hanno tutti i giorni un periodo di isolamento che cresce con gli anni. Quando un bambino ha raggiunto i dieci anni, è in grado di limitarsi alla visione per una settimana di fila. Naturalmente le visioni sono organizzate con complessità. Possono visionare all'esterno, in movimento e per tutto il giorno.»
«Sono sorpreso» commentò Baley «che riusciate a neutralizzare un istinto tanto profondo. Che lo neutralizziate lo vedo. Eppure mi meraviglia.»
«Quale istinto?» domando Klorissa con impeto.
«L'istinto gregario. C'è: l'ha detto lei che i bambini insistono per giocare insieme.»
Klorissa scrollò le spalle. «Quello lo chiama istinto? E poi, anche se lo fosse? Cieli azzurri, un bambino ha la paura istintiva di cadere, ma gli adulti possono essere addestrati a lavorare in posti elevati, anche dove c'è il continuo pericolo di cadere. Non ha mai visto esibizioni ginnastiche sulla fune? Ci sono mondi in cui la gente vive in palazzi altissimi. E poi i bambini hanno anche la paura istintiva dei rumori forti, ma lei ne ha paura?»
«Non senza ragione.»
«Sarei pronta a scommettere che la gente della Terra non è capace di dormire, quando c'è veramente il silenzio. Cieli azzurri, non c'è istinto che non si possa arrendere a una buona e persistente educazione. Certo non negli esseri umani, i cui istinti sono comunque deboli. Infatti, se la portate a fondo, ad ogni generazione l'educazione diventa più facile. Questione di evoluzione.»
«E questo come mai?»
«Non capisce? Ogni individuo durante il suo sviluppo ripete la sua storia evolutiva. Quei feti, che ha visto, per un certo tempo hanno coda e branchie. Non possono saltare questi stadi. E nello stesso modo i più giovani devono passare per lo stadio sociale-animalesco. Ma come un feto può oltrepassare in un mese uno stadio che l'evoluzione ci ha messo cento milioni d'anni a esaurire, così i nostri bambini possono uscire in fretta dallo stadio sociale-animalesco. Il dottor Delmarre era dell'opinione che, col passare delle generazioni, ne sarebbero usciti sempre più in fretta.»
«Ed è così?»
«Stimava che in tremila anni, al presente ritmo di progresso, avremo bambini che accetteranno immediatamente la visione. Il capo aveva anche altri progetti. Era interessato a migliorare i robot al punto di renderli capaci di mantenere la disciplina tra i bambini senza per questo diventare mentalmente instabili. Perché no? Disciplina oggi per una miglior vita domani è un'autentica espressione della Prima Legge, se solo i robot fossero in grado di capirlo.»
«E questo tipo di robot non è stato ancora prodotto?»
Klorissa scosse il capo. «Temo di no. Il dottor Delmarre e Leebig lavoravano intensamente su modelli sperimentali.»
«Il dottor Delmarre non aveva mandato dei modelli alla sua tenuta? Era un robotista abbastanza buono da condurre dei test per conto suo?»
«Oh, sì. Faceva dei test sui robot molto spesso.»
«Sa che quando è stato ucciso c'era un robot con lui?»
«Me l'hanno detto.»
«Sa che tipo di modello fosse?»
«Dovrebbe chiedere a Leebig. Come le ho detto, è il robotista che lavorava col dottor Delmarre.»
«Lei ne sa niente?»
«Niente di niente.»
«Se le viene in mente qualcosa, me lo faccia sapere.»
«Certo. E non credo che nuovi modelli di robot esaurissero gli interessi del dottor Delmarre. Era solito dire che verrà il tempo in cui delle uova non fertilizzate saranno immagazzinate in banche alla temperatura dell'aria liquida per essere poi usate per la fecondazione artificiale. In questo modo i principi eugenici potrebbero essere veramente applicati e potremmo sbarazzarci delle ultime vestigia di ogni necessità di vederci. Non sono sicura che avrei potuto seguirlo tanto lontano, ma era un uomo di cultura avanzata: un buonissimo solariano.»
Si affrettò ad aggiungere: «Vuole venire fuori? I gruppi tra i cinque e gli otto sono incoraggiati a giocare all'esterno, e così potrebbe vederli in azione».
«Tenterò» disse Baley con cautela. «Potrei dover rientrare a breve scadenza.»
«Ah, sì, dimenticavo. Forse preferirebbe non andar fuori affatto?»
«No.» Baley si costrinse a sorridere. «Sto cercando di abituarmi all'esterno.»
Ciò che era pesante da sopportare era il vento. Rendeva difficile la respirazione. Non che fosse freddo, in senso fisico immediato, ma la sua sensazione, la sensazione degli abiti che gli si agitavano sul corpo, davano a Baley una specie di brivido.
Quando cercava di parlare gli battevano i denti e doveva forzare le parole a uscire di bocca. Gli facevano male gli occhi a guardare tanto lontano verso un orizzonte così pieno di un nebuloso verde e azzurro che provava un limitato sollievo fissando il sentiero immediatamente davanti ai suoi piedi. Soprattutto evitava di alzare gli occhi a quel vuoto azzurro, vuoto, cioè, se si eccettuavano i bianchi cumuli di nuvole sparse qua e là e il fulgore del sole nudo.
Eppure riusciva a combattere l'impulso di scappare, di tornare al chiuso.
Seguendo Klorissa ai soliti dieci passi di distanza, oltrepassò un albero e allungò una mano per toccarlo. Al tatto era duro e rugoso. Sopra di lui si muovevano le fronde fruscianti, ma non alzò gli occhi a guardarle. Un albero vivo!
«Come si sente?» gridò Klorissa.
«Bene.»
«Da qui può vedere un gruppo di ragazzi» continuò lei. «Sono occupati in qualche gioco. I robot organizzano i giochi e stanno attenti che i piccoli animali non si facciano saltar fuori gli occhi a calci l'un l'altro. Con la presenza personale questo si può fare, lo sa.»
Baley alzò lentamente gli occhi, facendo scorrere lo sguardo lungo il sentiero di cemento fino all'erba, e poi giù per la scarpata, sempre più lontano (molto cautamente), pronto a girarsi di scatto se si fosse spaventato… Provando con gli occhi…
C'erano piccole figure di bambini e bambine che correvano pazzamente in giro, incuranti di essere sulla buccia esterna di un mondo con sopra di loro niente altro che aria e spazio. Lo scintillìo di qualche robot si muoveva agilmente qua e là tra di loro. Il chiasso dei bambini era qualcosa di incoerentemente gracidante nell'aria.
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