Per un istante Baley s'immaginò Solaria come una rete robotica con piccole maglie che diventavano sempre più piccole, con ogni essere umano messo esattamente al suo posto. Pensò alla teoria di Quemot di mondi che si trasformavano tutti in Solaria: di reti che si formavano e si restringevano sulla Terra, finché…
I suoi pensieri vennero meno alla voce del robot, che parlava con la tranquillità e il rispetto della macchina.
«Sono pronto ad aiutarla, padrone.»
«Sai come raggiungere il posto dove una volta lavorava Rikaine Delmarre?»
«Sì, padrone.»
Baley scrollò le spalle. Non avrebbe mai imparato a evitare di fare domande inutili. Il robot lo sapeva. Punto e basta. Gli venne in mente che per controllare i robot con vera efficienza uno doveva essere un esperto, quasi un robotista. Quanto bene ci riusciva il solariano medio? Probabilmente soltanto così così.
«Allora chiama questo posto» ordinò «ed entra in contatto con l'assistente di Delmarre. Se l'assistente non c'è, trovalo dovunque sia.»
«Sì, padrone.»
Mentre il robot si voltava, Baley lo richiamò. «Aspetta! Che ora è al posto di lavoro di Delmarre?»
«Circa le 0630, padrone.»
«Del mattino?»
«Sì, padrone.»
Di nuovo Baley sentì l'irritazione per un mondo che si era reso vittima dell'andare e venire del sole. Era quello che succedeva a vivere sulla nuda superficie del pianeta.
Pensò di sfuggita alla Terra e ne distolse la mente a fatica. Finché teneva fermamente la questione in mano, si era comportato bene. Scivolare nella nostalgia l'avrebbe rovinato.
Disse: «Chiama comunque l'assistente, ragazzo, e di' che si tratta di una faccenda del governo… E fa' portare da uno degli altri ragazzi qualcosa da mangiare. Un sandwich e un bicchiere di latte andranno benissimo».
Masticava pensieroso un sandwich che conteneva della carne affumicata, con in mente il pensiero che Daneel Olivaw, dopo quello che era successo a Gruer, avrebbe considerato sospetto ogni tipo di cibo. E Daneel avrebbe anche potuto aver ragione.
Comunque finì il sandwich senza malessere (per lo meno senza malessere immediato) e sorbì il latte. Non aveva saputo da Quemot quello che avrebbe voluto sapere, ma qualcosa aveva saputo. Quando gli si presentò quest'idea alla mente, gli sembrò di aver saputo un sacco di cose.
Poco sull'omicidio, certo, ma molto di più sulla situazione generale.
Tornò il robot. «L'assistente accetterà il contatto, padrone.»
«Bene. C'è stato qualche problema?»
«L'assistente dormiva, padrone.»
«Però ora è sveglio?»
«Sì, padrone.»
L'assistente gli fu improvvisamente di fronte, a letto e con in volto un'espressione d'imbronciato risentimento.
Baley rinculò come se gli avessero eretto davanti una barriera senza avvertirlo. Ancora una volta gli era stata celata un'informazione vitale. Ancora una volta lui non aveva fatto le domande giuste.
Nessuno aveva pensato di dirgli che l'assistente di Rikaine Delmarre era una donna.
Aveva i capelli un po' più scuri del solito color bronzo degli spaziali, e ne aveva una grande quantità, in quel momento piuttosto in disordine. Il suo volto era ovale, il naso un po' bulboso, il mento largo. Si stava lentamente grattando il fianco poco sopra la vita e Baley sperò che il lenzuolo sarebbe rimasto al suo posto. Si ricordò il libero atteggiamento di Gladia su quello che era permesso quando si visionava.
Baley provava un divertimento sardonico per la sua delusione. In un modo o nell'altro i terrestri davano per scontato che tutte le donne spaziali fossero belle, e certo Gladia aveva rafforzato in lui questa convinzione. Però quest'altra era comune anche secondo il metro terrestre.
Quindi sorprese Baley, che trovò attraente la sua voce di contralto, quando disse: «Senta, lo sa che ore sono?».
«Lo so,» disse Baley «ma, visto che sto per venire a vederla, mi è sembrato corretto avvisarla.»
« Vedermi? Cieli azzurri…» Spalancò gli occhi e appoggiò una mano sul mento. (Su un dito aveva un anello, il primo esempio di ornamento personale che Baley vedeva su Solaria.) «Aspetti, lei non è il mio nuovo assistente, vero?»
«No. Nulla del genere. Sono qui per investigare sulla morte di Rikaine Delmarre.»
«Ah si? Be', investighi, allora.»
«Come si chiama?»
«Klorissa Cantoro.»
«E da quanto lavorava per il dottor Delmarre?»
«Da tre anni.»
«Suppongo che abbia rilevato lei il posto di lavoro.» (Baley si sentiva a disagio con quella definizione generica, ma non sapeva proprio come definire, il posto in cui lavorasse un ingegnere fetale.)
«Vuol dire se sono alla fattoria?» disse con tono scontento Klorissa. «Certo che ci sono. Non l'ho più lasciata da quando il vecchio se n'è andato e non ho intenzione di lasciarla finché non mi viene assegnato un assistente. A proposito, non potrebbe sistemarla lei la cosa?»
«Mi dispiace, signora. Qui non ho nessuna influenza su nessuno.»
«Be', io ci ho provato.»
Klorissa tirò via il lenzuolo e uscì dal letto, senza'ombra di consapevolezza di quel che faceva. Portava un pigiama a un pezzo e la mano le corse allo zip, proprio dove finiva il collo.
Baley si affrettò a dire: «Solo un momento. Se lei accetta di vedermi, questo pone fine al colloquio, per ora, e lei potrà vestirsi in privato».
«In privato?» Sporse il labbro inferiore e fissò Baley con curiosità. «Lei è un pedante, vero? Come il capo.»
«Allora, vuole vedermi? Mi piacerebbe dare un'occhiata alla fattoria.»
«Non afferro questa faccenda del vedersi, ma se vuole visionare la fattoria le farò da cicerone. Se mi lascia modo di lavarmi, di badare ad alcune cose e di svegliarmi un po', sarà un piacere rompere la routine.»
«Io non voglio visionare niente. Voglio vedere. »
La donna piegò il capo da un lato e il suo sguardo perspicace aveva un'ombra di curiosità professionale. «Lei è un pervertito o qualcosa del genere? Quando è stata l'ultima volta che si è sottoposto a un'analisi genetica?»
«Giosafatte» borbottò Baley. «Senta, sono Elijah Baley. Vengo dalla Terra.»
«Dalla Terra?» gridò lei con veemenza. «Cieli azzurri! E che diavolo ci fa qui? O questo è uno scherzo particolarmente complicato?»
«Non scherzo affatto. Sono stato chiamato per investigare sulla morte di Delmarre. Sono un agente in borghese. Un detective.»
«Ah, lei intende quel tipo di investigazione. Ma credevo che tutti sapessero che è stata sua moglie.»
«No, signora, a questo proposito ho qualche domanda in mente. Le chiedo il permesso di vedere la fattoria e lei. Come terrestre, capisce, non sono abituato a visionare. Mi fa sentire a disagio. Ho il permesso del capo della Sicurezza di vedere la gente che mi potrebbe aiutare. Le mostrerò il documento, se lo desidera.»
«Vediamolo.»
Baley tenne il rotolo fermo davanti ai suoi occhi sgranati.
Lei scosse il capo. «Vedere! È sporco. D'altra parte, cieli azzurri, che cosa c'è di più sporco di un lavoro sporco? Senta, però non mi venga vicino. Mi starà un bel po' distante. Possiamo gridare o mandarci messaggi con un robot, se dobbiamo. Capito?»
«Capito.»
Aprì il pigiama proprio mentre il contatto se ne andava e l'ultima parola che Baley riuscì a udire fu un «Terrestre!» borbottato.
«Così è abbastanza vicino» esclamò Klorissa.
Baley, che era a sette o otto metri dalla donna, disse a sua volta: «Va bene questa distanza, però vorrei entrare dentro alla svelta».
Questa volta non era stato tanto male. Aveva fatto poco caso al volo in aereo, ma era inutile strafare. Continuava ad allargarsi il colletto per poter respirare più liberamente.
«Che c'è che non va?» chiese bruscamente Klorissa. «Mi sembra malconcio.»
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