Lloyd si sorprese di avere ancora un’individualità; avrebbe pensato che se il genere umano era destinato a sopravvivere per milioni di anni di certo lo avrebbe fatto come coscienza collegata, collettiva. Ma nella sua mente non sentiva altre voci; per quanto poteva dire, lui era ancora una singola unità separata, anche se il fragile corpo fisico che una volta lo aveva avviluppato aveva da tempo cessato di esistere.
Aveva visto la sfera di Dyson che avvolgeva per metà il sole, il che significava che un giorno l’umanità avrebbe padroneggiato una tecnologia fantastica ma, fino a quel momento, non aveva visto la minima traccia di qualsiasi intelligenza diversa da quella dell’uomo.
Poi la cosa lo colpì: un’intuizione fulminea. Ciò che stava succedendo voleva dire che non esisteva in nessun luogo altra vita intelligente, su nessuno dei pianeti dei duecento miliardi di stelle che formavano la Via Lattea, anzi — si fermò per correggersi — dei seicento miliardi di stelle che facevano parte della supergalassia attualmente congiunta, formata dall’intersezione della più piccola Via Lattea con la più grande Andromeda. E su nessun pianeta delle stelle delle innumerevoli altre galassie che formavano l’universo.
Di certo tutta la consapevolezza, ovunque, doveva convenire su ciò che costituiva l’ adesso’. Se la coscienza umana rimbalzava via, si spostava, non significava forse che non poteva esistere nessun’altra coscienza, nessun altro gruppo in competizione per il diritto di affermare quale particolare momento costituisse il presente?
Nel qual caso l’umanità era sola in modo sconcertante, inesorabile, schiacciante, nell’intera vastità oscura del cosmo, l’unica scintilla di intelligenza che fosse mai stata generata. La vita si era felicemente sviluppata sulla Terra per quattro miliardi di anni, prima dei vagiti iniziali di autocoscienza, ma ancora nel 2030 nessuno era riuscito a duplicare quell’intelligenza in una macchina. Essere consapevole, sapere che quello era l’allora, questo è l’adesso e che domani è un altro giorno, era stato un incredibile colpo di fortuna, un evento casuale, una capricciosa coincidenza mai replicata prima o dopo nella storia dell’universo.
E forse questo spiegava l’incredibile mancanza di nerbo che Lloyd aveva notato molto spesso. Anche nel 2030 l’uomo non si era ancora avventurato oltre la Luna; nessuno aveva raggiunto Marte nei sessantuno anni successivi alla piccola passeggiata di Armstrong, e non sembrava esistere alcun programma per realizzare quel progetto. Marte, naturalmente, poteva allontanarsi dalla Terra fino a 377 milioni di chilometri, quando i due pianeti si trovavano sui lati opposti del sole. Una mente umana su Marte, in quelle condizioni, si sarebbe trovata a ventuno minuti luce dalle altre menti sulla Terra. Anche le persone che stanno in piedi l’una accanto all’altra sono in qualche modo separate dal tempo: si vedono non come sono, ma come erano un miliardesimo di miliardesimo di secondo prima. Sì, un certo grado di desincronizzazione era chiaramente tollerabile, ma doveva esserci un limite. Magari sedici minuti luce erano ancora accettabili — la distanza fra due individui sui lati opposti di una sfera di Dyson costruita lungo il raggio dell’orbita terrestre — ma ventuno minuti luce erano troppi. 0 forse anche sedici minuti luce erano al di là della capacità di accettazione di un essere consapevole. Il genere umano aveva certamente costruito la sfera di Dyson che Lloyd aveva osservato — e così facendo aveva posto una barriera fra sé e la vuota, solitaria vastità dell’esterno — ma forse la sua intera superficie interna non era popolata. La gente poteva occupare solo una porzione della superficie. Una sfera di Dyson, in fin dei conti, aveva un’area milioni di volte superiore a quella del pianeta Terra; anche occupare solo un decimo del territorio disponibile avrebbe offerto all’umanità una quantità di spazio di gran lunga maggiore di quello che avesse mai avuto a disposizione. La sfera poteva raccogliere ogni fotone emesso dalla stella centrale, ma probabilmente l’umanità non si era sparpagliata lungo tutta la superficie.
Lloyd — o qualunque cosa lui fosse diventato — si ritrovò a spingersi sempre più avanti nel futuro. Le immagini continuavano a cambiare.
Pensò a ciò che aveva detto Michiko: Frank Tipler e la sua teoria che chiunque fosse mai vissuto, o dovesse ancora vivere, era destinato a essere resuscitato nel punto Omega, per vivere di nuovo. La fisica dell’immortalità.
Ma la teoria di Tipler si basava sul presupposto che l’universo fosse chiuso, che avesse massa sufficiente perché la sua attrazione gravitazionale facesse collassare alla fine ogni cosa, riducendo il tutto a una singolarità. Col passare degli eoni divenne ben presto chiaro che ciò non sarebbe avvenuto. Sì, la Via Lattea e la sua più immediata vicina erano entrate in collisione, ma anche intere galassie erano ben poca cosa, a paragone con un universo in continua espansione. L’espansione poteva anche rallentare fino a ridursi a quasi nulla, avvicinandosi asintoticamente allo zero, ma non si sarebbe mai fermata. Non ci sarebbe mai stato un punto Omega. E non ci sarebbe mai stato un altro universo. Esisteva solo quello, la sola e unica iterazione dello spazio e del tempo.
Naturalmente, a questo punto, anche la stella racchiusa nella sfera di Dyson aveva senza dubbio esalato l’ultimo respiro; se gli astronomi del ventunesimo secolo non si erano sbagliati, il sole della Terra era destinato a espandersi in una gigante rossa, inghiottendo il guscio che lo circondava. L’umanità aveva avuto certamente miliardi di anni di preavviso, però, e si era di sicuro spostata — en masse, se è questo che richiedeva la fisica della consapevolezza — da qualche altra parte.
Almeno lo spero, pensò Lloyd. Si sentiva ancora disconnesso da tutto ciò che gli si mostrava in immagini individuali, luminose. Forse l’umanità era stata spazzata via quando il suo sole era morto.
Ma lui — qualsiasi cosa fosse diventato — era in qualche modo ancora vivo, ancora pensava, ancora provava sensazioni.
Doveva esserci qualcun altro con cui dividere tutto questo.
A meno che…
A meno che quello fosse il modo dell’universo di sigillare l’inattesa spaccatura causata dai neutrini di Sanduleak che si riversavano da una ricreazione dei primi momenti dell’esistenza.
Spazzare via ogni forma di vita estranea. Lasciare solo un osservatore qualificato… una forma onnisciente, che tenesse d’occhio…
…ogni cosa, decidendo la realtà in base alla sua osservazione. Bloccandola in un adesso stabile, muovendosi in avanti all’inesorabile ritmo di un secondo in più ogni secondo.
Un dio…
Ma di un universo vuoto, senza vita, incapace di pensare.
Alla fine la corsa nel tempo si fermò. Era giunto alla sua destinazione, al momento della rivelazione; la consapevolezza di questo anno così remoto — se la parola ‘anno’ poteva avere più qualche significato, adesso che il pianeta del quale misurava l’orbita era da tempo scomparso — si era trasferita in regni ancora più lontani, lasciando al suo posto un buco che lui poteva occupare.
Naturalmente l’universo era aperto. Naturalmente sarebbe andato avanti per sempre. L’unico modo in cui la consapevolezza del passato poteva continuare a balzare in avanti era quello di avere sempre un punto più lontano in cui potesse spostarsi la consapevolezza del presente; se l’universo fosse stato chiuso, la dislocazione temporale non si sarebbe mai verificata. Doveva essere una catena senza fine.
E adesso, di fronte a lui…
Di fronte a lui, adesso, c’era il futuro più remoto.
Da ragazzo Lloyd aveva letto La macchina del tempo, di H. G. Wells. E ne era rimasto affascinato per anni. Non dal mondo degli Eloi e dei Morlock; anche se così giovane, l’aveva subito interpretata come un’allegoria, un ‘morality play’ sulle strutture di classe dell’Inghilterra vittoriana. No, quel mondo dell’anno 802.701 non lo aveva impressionato più di tanto. Ma il viaggiatore nel tempo di Wells aveva effettuato un altro viaggio, nel libro, balzando in avanti fino al crepuscolo del mondo, quando le forze di marea avevano rallentato la rotazione della Terra, che aveva finito col rivolgere sempre la stessa faccia al sole, rosso e rigonfio, un occhio funesto sull’orizzonte, mentre cose simili a granchi risalivano lentamente lungo una spiaggia.
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