Il carrello di Theo continuò il suo viaggio lungo la galleria. Si guardò ancora all’indietro; Rusch spuntava in quel momento dalla curva del tunnel.
No. No, anche se avesse potuto, lui non avrebbe cambiato il passato. E poi non era convinto che Rusch avesse ragione. Sì, il futuro poteva essere cambiato, ma il passato? No, quello doveva essere immutabile. Almeno su quello era sempre stato d’accordo con Lloyd Simcoe. Ciò che sosteneva quel Rusch era pura follia.
Un altro sparo! La pallottola lo mancò, colpendo il soffitto del tunnel sopra di lui. Ma Rusch ci avrebbe provato di nuovo, se avesse capito dove stava puntando Theo…
Un altro chilometro di corsa. Il timer segnava ormai undici minuti. Theo osservò i segnali lungo la parete, cercando di illuminarli con la fioca luce dei fari. Doveva essere poco avanti, e…
Eccola! Proprio dove l’aveva lasciata!
La monorotaia, appesa al soffitto. Se fosse riuscito a raggiungerla…
Echeggiò un altro colpo di pistola. Questo colpì il carrello, e per poco Theo non perse di nuovo il controllo dei veicolo. La monorotaia si trovava ancora a un centinaio di metri di distanza. Theo armeggiò ancora con la leva di guida, chiedendole velocità, sempre più velocità…
La monorotaia era composta da cinque elementi: una cabina a ciascuna delle due estremità, e tre vetture nel mezzo; lui doveva raggiungere la cabina più lontana, perché il treno si sarebbe mosso solo nella direzione che i suoi sistemi di rilevazione consideravano come in avanti.
C’era quasi…
Non rallentò gradualmente il carrello a cuscino d’aria; al contrario, tirò di scatto il freno. Il veicolo schizzò in avanti, e Theo insieme a esso. Andò a sbàttere contro la parete del tunnel, scivolando via e facendo volare scintille da tutte le parti. Theo uscì, afferrò la bomba e…
Un altro sparo…
Dio !
Uno schizzo del suo stesso sangue gli imbrattò la faccia…
Un dolore forte come non lo aveva mai provato in tutta la sua vita…
Un pallottola piantata nella spalla destra…
Dio…
Lasciò cadere la bomba, poi la riafferrò a tentoni con la mano sinistra e s’infilò barcollando nella cabina della monorotaia.
Dolore… dolore incredibile…
Premette il pulsante di avvio.
I fari, montati al di sopra del parabrezza inclinato, si accesero, illuminando la galleria davanti a lui. Dopo l’oscurità dell’ultima ora, quella luce gli sembrò dolorosamente forte.
La monorotaia si mise in moto, emettendo una specie di gemito. Theo spinse la leva della velocità, e il treno accelerò progressivamente.
Theo pensò che fra poco sarebbe svenuto per il dolore. Si voltò a guardare. Rusch stava oltrepassando il carrello abbandonato da Theo. La monorotaia utilizzava il sistema della levitazione magnetica, ed era in grado di raggiungere una notevole velocità, ma naturalmente nessuno l’aveva mai messa alla prova al limite delle sue possibilità all’interno della galleria.
Fino a ora.
Le cifre luminose della bomba segnavano otto minuti.
Un’altra pallottola gli fischiò vicino, mancando il bersaglio. Theo si girò appena in tempo per vedere il carrello di Rusch precipitarsi oltre la curva del tunnel.
Theo sporse la testa dal finestrino della cabina, e il vento gli investì la faccia. «Andiamo» disse. «Andiamo…»
Le pareti ricurve della galleria gli scorsero davanti abbagliandolo. I generatori della levitazione magnetica ronzavano rumorosamente.
Eccoli: Jake e Moot, il fisico che assisteva il poliziotto, il quale si era tirato su a sedere, miracolosamente vivo. Theo gli fece un cenno con la mano mentre la monorotaia li oltrepassava a tutta velocità.
Altri chilometri, poi…
Sessanta secondi.
Non ce l’avrebbe mai fatta a raggiungere la stazione di accesso remoto, né a risalire in superficie. Forse doveva semplicemente gettare via la bomba; sì, avrebbe messo fuori uso l’LHC, dovunque esplodesse, ma…
No.
No, si era spinto troppo avanti… e su di lui non c’era il marchio del destino: la sua morte non era preordinata.
Se solò…
Tornò a guardare il timer, poi i segni lungo la parete.
Sì!
Sì! Poteva farcela!
Sollecitò il treno a una velocità ancora maggiore.
E poi…
Il tunnel si allargò.
Theo pigiò sul freno d’emergenza.
Un’altra nuvola di scintille.
Metallo contro metallo.
La sua testa scagliata in avanti…
Un dolore atroce alla spalla…
Theo si lanciò oltre il bordo della cabina bloccata e si allontanò barcollando dalla monorotaia.
Quarantacinque secondi…
Percorse con passo incerto pochi metri lungo la galleria…
Fino all’entrata dell’enorme sala vuota, alta come un palazzo di sei piani, che una volta aveva ospitato il rilevatore CMS.
Fece forza su se stesso per avanzare, entrare nella sala, sistemare la bomba del bel mezzo dell’ampio spazio vuoto.
Trenta secondi.
Si voltò, corse più veloce che poteva, atterrito nel vedere il fiume di sangue che si lasciava dietro…
Di nuovo alla monorotaia…
Quindici secondi.
Dentro la cabina, scavalcando il bordo, un colpo sull’acceleratore…
Dieci secondi.
Via di corsa lungo il binario fissato al soffitto…
Cinque secondi.
Oltre la curva del tunnel…
Quattro secondi.
Quasi svenuto per il dolore…
Tre secondi.
Sollecitando il treno alla massima velocità.
Due secondi.
Coprendosi la testa con le mani, mentre la spalla protestava con violenza al gesto di sollevare il braccio destro…
Un secondo.
Con appena il tempo di domandarsi ciò che il futuro serbasse…
Zero!
Boom !
L’esplosione che rimbomba nel tunnel.
Una vampa di luce da dietro le spalle che proietta l’ombra enorme della forma insettoide della monorotaia contro la parete ricurva del muro…
E poi…
L’oscurità gloriosa, che guarisce, mentre il treno corre via e Theo si accascia sul minuscolo cruscotto.
Due giorni dopo.
Theo era nella sala di controllo dell’LHC. La sala era affollata, ma non di scienziati e ingegneri… era quasi tutto automatizzato. Tuttavia c’erano decine di giornalisti, tutti sdraiati sul pavimento. Naturalmente c’era anche Jake Horowitz, così come gli ospiti d’onore di Theo, il detective Helmut Drescher, con un bendaggio rigido alla spalla, e la sua giovane moglie.
Theo diede inizio al conto alla rovescia, poi si sdraiò anche lui al suolo, aspettando che la cosa accadesse.
Lloyd Simcoe pensava spesso a sua figlia Joan, sette anni, che adesso viveva in Giappone. Naturalmente si parlavano un giorno sì e un giorno no per videofono, e Lloyd cercava di convincersi che vederla e parlarle fosse la stessa cosa che coccolarla e tenerla sulle ginocchia e passeggiare con lei nel parco, mano nella mano, e asciugarle le lacrime quando cadeva e si sbucciava un ginocchio.
L’amava moltissimo ed era talmente orgoglióso di lei da non riuscire a esprimerlo a parole. Certo, malgrado il suo nome occidentale, non gli assomigliava nemmeno un po’: i suoi lineamenti erano del tutto asiatici. Ma soprattutto assomigliava in modo straordinario alla povera Tamiko, la sorellastra che non avrebbe mai conosciuto. L’aspetto esteriore, comunque, non contava; la metà di ciò che Joan era, proveniva da Lloyd. Più del suo premio Nobel, più di tutte le pubblicazioni che aveva scritto da solo o in collaborazione, lei era la sua immortalità.
E anche se veniva da un matrimonio che non era durato, Joan stava crescendo proprio bene. Oh, Lloyd non aveva dubbi che qualche volta la bambina desiderasse rivedere i suoi genitori insieme. Però Joan era venuta al matrimonio di Lloyd con Doreen, conquistando il cuore di tutti come damigella della donna che ben presto sarebbe diventata la sua matrigna.
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