«Sì, forse avete ragione. Ma continuo a pensare che ci procurerebbe una maggiore quantità di tafacco.»
«Lo penso anch’io, se sono abbastanza civili. Ma non vedo perché dobbiate lamentarvi della cosa… Dio sa che il tafacco vi costa abbastanza poco, ora come ora.»
«No, non mi dà fastidio il prezzo» disse Drai «ma la quantità. Riusciamo ad avere soltanto un paio di centinaia di cilindri l’anno… mi riferisco a un anno del Pianeta Tre. Questo non ci permette di operare su una scala abbastanza grande. Comunque, fate la cosa che vi sembra migliore… ammesso che riusciate a convincere anche me che è la migliore.»
E con queste parole se ne andò, sorridendo; ma sia Feth che Ken ebbero l’impressione che quel sorriso contenesse dei sottintesi molto spiacevoli. Feth guardò con inquietudine la forma di Drai che si allontanava, fece per riprendere il lavoro, s’interruppe di nuovo, diede un’occhiata a Ken, come per scusarsi, e infine si mise a seguire Drai. Lo scienziato si ricordò che Feth aveva preso la sua ultima dose della droga qualche tempo prima di lui.
Questo lo portò a domandarsi quanto tempo mancava ancora, prima che sentisse anche lui la mancanza del narcotico. Feth aveva parlato di cinque o sei giorni sarriani, ciascuno dei quali era lungo circa tredici ore terrestri. Da quando Ken aveva ripreso i sensi, circa mezza giornata era trascorsa in discussioni, preparazione delle tute corazzate e viaggio fino a Tre; poi, più di un giorno era stato occupato dai test delle tute e dall’incontro con l’indigeno; infine, dal rientro su Uno fino a quel momento era passata un’ulteriore mezza giornata.
Guardando invece al futuro, doveva trascorrere ancora una mezza giornata prima del nuovo incontro con gli indigeni di Tre. Nessuno poteva dire quanto era destinato a durare l’incontro, ma, a quanto pareva, aveva ancora a disposizione almeno un paio di giorni, prima della crisi di astinenza. Cessò di preoccuparsi e rivolse nuovamente l’attenzione al vivaio quasi completo.
Non era un saldatore esperto, ma i campioni che attendevano pazientemente a una distanza di tremila chilometri dalla base non sarebbero sopravvissuti per molto, e lui non sapeva per quanto tempo Feth non era disponibile. Prese il saldatore e tornò al lavoro sulla cassa esterna. Osservando Feth, aveva imparato a controllare le saldature, e rimase piacevolmente sopreso quando risultò che le sue erano a tenuta d’aria.
Comunque, non osò spingersi oltre; il meccanico non aveva lasciato progetti scritti, e Ken non aveva idea di come intendesse collegare la pompa e il refrigeratore. Interruppe perciò il lavoro e si dedicò al problema di cui aveva parlato con Drai: trasferire i campioni nel nuovo bellissimo vivaio, una volta che questo fosse completato.
Perse del tempo cercando di inventare il sistema di aprire le scatole a distanza, prima che gli venisse in mente la soluzione. Poi si diede un calcio per non averci pensato prima… le gambe a doppia articolazione dei sarriani rendevano particolarmente agevole questa operazione. Infine si rilassò fino al ritorno di Feth, avvicinandosi al sonno quanto era possibile alla sua razza.
Il meccanico ritornò dopo circa quattro ore. Pareva in ottima forma; il tafacco evidentemente non lasciava postumi visibili, neppure dopo anni di uso, e la constatazione servì a rassicurarlo leggermente.
Ken gli fece vedere il lavoro da lui fatto in sua assenza, e Feth si complimentò con lui. Parve un poco deluso, comunque, quando udì i progetti dello scienziato per riempirlo; come gli confessò in seguito, lui non ci aveva pensato.
«Siamo stati sciocchi a prendere dei campioni prima di avere il posto dove metterli» disse Ken. «Nei contenitori corriamo il rischio di rovinarli, e inoltre c’è il problema di trasferirli. Sarebbe stato più saggio costruire per prima cosa questo vivaio, e in un secondo tempo portarlo sulla superficie di Tre per riempirlo sul posto. Perché non l’abbiamo fatto?»
«Se volete che risponda a questa domanda» disse Feth «è perché eravamo troppo ansiosi di fare il viaggio. Non intendete usare i campioni che già possediamo, allora?»
«Potremmo controllare la loro temperatura» disse Ken. «Se è ancora ragionevole, possiamo riportarli su Tre e fare il trasferimento laggiù. Sarà interessante vedere se i semi sono sopravvissuti al viaggio, sempre che ci siano dei semi nei campioni… con questo però non voglio dire che un’eventuale mancanza di crescite significhi qualcosa.»
«Si potrebbero esaminare i campioni al microscopio per cercare i semi in essi contenuti» disse Feth, dimenticandosi per un attimo di quella che era la realtà della situazione.
«E come faccio?» domandò Ken in tono interessato. «Cuocio il campione o congelo l’osservatore?» Feth lasciò perdere i suggerimenti e ritornò al suo lavoro: in breve tempo, il vivaio prese forma sotto i suoi abili tentacoli. Ken vide che il refrigeratore e la pompa erano due apparecchiature straordinariamente piccole, robustamente fissate al fianco della cassa. I comandi erano semplici: una leva acceso-spento per la pompa, un cursore graduato per il refrigeratore.
«Non l’ho ancora calibrato» disse Feth, indicando il cursore. «Metterò un termometro all’interno, dove sarà possibile vederlo attraverso il coperchio, e voi dovrete regolare la leva finché non si troverà alla giusta temperatura.»
«Perfetto» commentò Ken. E aggiunse: «Per delle attrezzature fabbricate con quel poco che avete a disposizione, mi sembra che costruiate meccanismi altamente professionali. Anche volendo, non riuscirei a trovare nessun difetto.»
Mancavano alcune ore all’appuntamento sul Pianeta Tre. Oziarono e chiacchierarono per qualche tempo, e Ken perfezionò progressivamente i suoi piani. Parlarono delle singolarità del Pianeta dei Ghiacci. Feth cercò fra i suoi equipaggiamenti e riferì di non avere trovato niente con cui si potesse costruire il quadro di comando portatile che avrebbe permesso a Ken di manovrare direttamente la sua sonda.
Fu poi il turno del meccanico di prendersi a calci quando lo scienziato gli suggerì di collegarlo via cavo ai comandi: lui, Ken, non aveva bisogno di mandare gli impulsi via radio. Trenta minuti più tardi, nel laboratorio c’era una sonda da cui, in corrispondenza di un minuscolo foro sullo scafo, usciva un lungo cavo elettrico che terminava con una piccola scatola provvista di sei o sette levette. Manipolando le levette, Ken non ebbe difficoltà a far fare alla navicella i movimenti voluti.
«Mi pare che siamo della stessa forza, nel non accorgerci delle cose più ovvie» disse Ken, alla fine. «Non sarebbe meglio prepararci alla partenza?»
«Lo penso anch’io. Tra l’altro, visto che non potete leggere gli strumenti della sonda, è meglio che vi piloti io finché non sarete sulla superficie del pianeta. Poi potrete andare dove vorrete.»
«Giusto» rispose Ken. «A una distanza di cinquemila chilometri dalla superficie, non credo di poter giudicare bene la quota e la velocità…»
S’infilarono la tuta spaziale, e cominciarono a trasportare sulla Karella le loro apparecchiature. Lasciarono il vivaio nella camera di decompressione, perché dovevano in seguito legarlo alla sonda; ma Lee si imbatté in esso, qualche minuto più tardi, e cominciò a fare dei commenti corrosivi sulle persone che ostruiscono l’uscita delle navi spaziali. Umilmente, Ken portò la scatola all’interno, senza chiedere aiuto a nessuno, perché Feth era in cabina di comando, intento a far entrare nel suo alloggiamento sullo scafo la sonda a cui aveva applicato i dispositivi manuali.
Erano pronti a partire, se non fosse stato per la mancanza di un’ultima cosa, e nessuno dei due ne aveva notato l’assenza. Se ne accorsero all’ultimo minuto prima dell’ora fissata per il decollo, allorché un’altra figura che indossava la tuta veleggiò dalla camera di decompressione della base a quella della nave. Lee rimase in attesa che salisse, senza mostrare alcuna sorpresa; e un momento più tardi Laj Drai entrò nella cabina di comando.
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