La manovra per chiudere manualmente il portello richiese ancor più tempo di quello che si era reso necessario per aprirlo, ma non esisteva alcun’altra possibilità fino a quando sull’astronave non fosse tornata l’energia. Subito prima che il portello si chiudesse ermeticamente, Curnow osò dare un’occhiata al pazzesco panorama esterno.
Un baluginante lago azzurro si era spalancato in prossimità dell’equatore; egli aveva la certezza che non fosse esistito appena poche ore prima. Lampi di un giallo vivido, il colore caratteristico del sodio ardente, danzavano lungo le sue sponde; e l’intero paesaggio notturno era velato dalle spettrali scariche di plasma di una delle quasi ininterrotte aurore di Io.
Si trattava della sostanza di futuri incubi — e, come se tutto questo non bastasse, vi fu un ulteriore tocco degno di un pazzo artista del surrealismo. Pugnalando il nero cielo, e in apparenza emergendo direttamente dalle fornaci della luna che ardeva, saliva un immenso corno ricurvo, come quello che potrebbe intravvedere un torero condannato nel momento ultimo della verità.
La falce di Giove stava emergendo per salutare la Discovery e la Leonov mentre le due astronavi viaggiavano verso di essa lungo la loro comune orbita.
Non appena quel portello esterno si chiuse dietro di loro, vi fu un sottile capovolgimento delle parti. Curnow si sentiva adesso a proprio agio, mentre Brailovsky era fuori del suo elemento e provava una sensazione di inquietudine nel labirinto di tenebrosi corridoi e di gallerie che era l’interno della Discovery. In teoria, Max sapeva orizzontarsi sull’astronave perché aveva studiato i disegni del progetto. Curnow, d’altro canto, aveva lavorato per parecchi mesi all’identica gemella, non ancora completata, della Discovery; e pertanto avrebbe potuto aggirarvisi, del tutto alla lettera, con gli occhi bendati.
Procedere risultò difficoltoso perché quella parte dell’astronave era stata progettata per la gravità zero; ora la rotazione incontrollata causava una gravità artificiale che, sebbene lieve, sembrava sempre esercitarsi nella direzione più scomoda.
«La prima cosa che dobbiamo fare» borbottò Curnow, dopo essere scivolato per parecchi metri lungo un corridoio prima di riuscire ad afferrarsi a un maniglione «è eliminare questa dannata rotazione. E non potremo riuscirvi finché non avremo l’energia. Spero soltanto che Dave Bowman abbia salvaguardato tutti i sistemi prima di abbandonare la Discovery,»
«È sicuro che l’abbia abbandonata? Potrebbe essere stato intenzionato a rientrarvi.»
«Forse ha ragione lei; ma presumo che non lo sapremo mai. Se pure lo sapeva egli stesso.»
Erano entrati adesso nel «Locale baccelli» dell’astronave, lo spazio per il rimessaggio dell’astronave, che conteneva normalmente tre delle capsule, i moduli sferici per il personale, impiegati allo scopo di svolgere attività extraveicolari. Vi restava soltanto il Baccello Numero 3; il Numero 1 era andato perduto nel misterioso incidente che aveva ucciso Frank Poole — e il Numero 2 lo aveva Dave Bowman, ovunque egli potesse trovarsi.
Il «Locale baccelli» conteneva inoltre due tute spaziali, che sembravano sgradevolmente cadaveri decapitati, appese com’erano, senza il casco, ai loro sostegni. Non occorreva un grande sforzo dell’immaginazione e — l’immaginazione di Brailovsky stava facendo, in quel momento, gli straordinari — per raffigurarsele riempite da un intero serraglio di sinistri occupanti.
Fu deplorevole, anche se non del tutto sorprendente, il fatto che il talora irresponsabile senso dell’umorismo di Curnow prevalesse su di lui proprio in quel momento.
«Max» egli disse, in un tono di voce mortalmente serio, «qualsiasi cosa possa accadere, non dia la caccia, la prego, al felino dell’astronave.»
Per alcuni millisecondi, Brailovsky venne colto di sorpresa. Poco mancò che rispondesse: «Vorrei proprio che non avesse detto questo, Walter», ma si frenò in tempo. Sarebbe stata una confessione di debolezza troppo compromettente; disse invece: «Mi piacerebbe proprio conoscere l’idiota che inserì quel film nella nostra cineteca.»
«Sarà stata probabilmente Katerina, per collaudare l’equilibrio psicologico di noi tutti. In ogni modo, lei ha riso a più non posso quando è stato proiettato la settimana scorsa.»
Brailovsky tacque; l’osservazione di Curnow era verissima. Ma lui aveva riso nel tepore e nella luminosità familiari della Leonov, tra i suoi amici… e non in un relitto buio come la notte e gelido, infestato da fantasmi. Per quanto si potesse essere razionali, era troppo facile immaginare qualche implacabile bestia aliena che si aggirasse lungo quei corridoi, cercando qualcuno da divorare.
La colpa è tutta tua, nonna (possa la tundra siberiana non pesare sulle tue care ossa!); vorrei che tu non mi avessi imbottito il cervello con tutte quelle leggende spaventose. Se chiudo gli occhi, vedo ancora la capanna di Babà Yaga, ritta nella radura della foresta sulle sue palafitte gracili come zampe di gallina…
Oh, basta con queste assurdità. Sono un brillante giovane ingegnere alle prese con la più grande sfida tecnica della sua vita e non devo lasciar capire al mio amico americano che a volte mi sento come un bimbetto spaventato…
I rumori non contribuivano di certo a calmarlo. Ve n’erano troppi, anche se così fiochi che soltanto un astronauta esperto avrebbe potuto percepirli oltre quelli della tuta. Ma per Max Brailovsky, abituato come egli era a lavorare in un ambiente ove regna il silenzio assoluto, quei suoni erano decisamente snervanti, sebbene egli sapesse che gli occasionali cigolii e crepitii venivano causati, quasi certamente, dall’espansione termica mentre l’astronave ruotava come un arrosto sullo spiedo. Benché all’esterno il sole splendesse debolmente, esisteva pur sempre una differenza di temperatura apprezzabile tra la luce e l’ombra.
Persino nella tuta spaziale tanto familiare sembrava esservi qualcosa che non andava, a causa della esistenza di una pressione esterna oltre a quella interna. Tutte le forze che agivano sulle giunture erano sottilmente alterate ed egli non riusciva più a valutare in modo preciso i propri movimenti. Sono un principiante e sto ricominciando daccapo con l’addestramento, disse irosamente a se stesso. Era venuto il momento di disperdere quello stato d’animo con qualche azione decisiva…
«Walter… vorrei provare l’atmosfera.»
«La pressione è okay; la temperatura… perdiana… siamo a centocinque gradi sotto zero.»
«Quasi come quella di un piacevole e corroborante inverno russo. In ogni modo l’aria nella tuta escluderà le conseguenze peggiori del freddo.»
«Be’, faccia pure. Ma lasci che le illumini il viso con la lampada del casco per vedere se comincerà a diventare cianotico. E continui a parlare.»
Brailovsky fece scattare la chiusura ermetica della visiera e sollevò la parte anteriore del casco. Trasalì momentaneamente mentre dita gelide sembravano accarezzargli le gote, poi respirò appena, con cautela, e, subito dopo, si consentì una inspirazione più profonda.
«L’aria è gelida… ma i polmoni non mi si stanno congelando. Ve un odore strano, però. Di marcio, di putrido… come se qualcosa… oh no!»
Divenendo improvvisamente pallido, Brailovsky si affrettò a richiudere di scatto la visiera.
«Che cosa c’è, Max?» domandò Curnow, con un’ansia improvvisa e ora assolutamente autentica. Brailovsky non rispose; pareva che stesse ancora tentando di ritrovare il dominio di se stesso. Sembrava, invero, correre davvero il pericolo di quel disastro sempre orribile — e talora persino fatale — che è il vomito entro una tuta spaziale.
Seguì un lungo silenzio; poi Curnow disse, rassicurante: «Ho capito. Ma sono certo che si sbaglia. Sappiamo che Poole si perdette nello spazio. Bowman riferì che… aveva espulso nel vuoto gli altri, dopo la loro morte in stato di ibernazione… e possiamo star certi che così fece. Non può esserci nessuno, qui. D’altronde l’ambiente è talmente gelido…» Fu quasi sul punto di soggiungere: «Come un obitorio», ma si trattenne in tempo.
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