Uno degli assunti che ho sostenuto in questo libro è che Einstein aveva ragione e che nessun segnale — od oggetto — può superare la velocità della luce. È apparso di recente un gran numero di saggi di alta matematica in cui si suggerisce che, come innumerevoli scrittori di fantascienza hanno già dato per scontato, gli autostoppisti galattici potrebbero non soffrire di questa fastidiosa limitazione.
Tutto sommato, spero che abbiano ragione — ma pare che ci sia un’obiezione fondamentale. Se i viaggi interstellari sono possibili, dove sono tutti quegli autostoppisti o come minimo i turisti ben forniti di quattrini?
Una risposta potrebbe essere che nessun extraterrestre sensato costruirebbe mai veicoli interstellari, esattamente per lo stesso motivo per cui non abbiamo mai sviluppato astronavi alimentate a carbone: ci sono modi molto migliori di fare le cose.
Il numero sorprendentemente esiguo di bytes necessari a definire un essere umano o a immagazzinare le informazioni che uno potrebbe acquisire durante tutta una vita, è discusso in Machine Intelligence, the Cost of Interstellar Travel and Fermi’s Paradox di Louis K Scheffer (Quarterly Journal of the Royal Astronomical Society, 35, n. 2, giugno 1994, pp. 157–175). Questo saggio (sicuramente il più stringato articolo che la rivista abbia pubblicato in tutta la sua storia!) valuta che lo stato mentale globale di un uomo di cent’anni con una memoria perfetta potrebbe essere rappresentato da dieci alla quindicesima bytes (un petabytes). Persino le fibre ottiche di oggi potrebbero trasmettere questa quantità di informazioni in una manciata di minuti.
Il mio accenno al fatto che il «trasportatore» di Star Trek non sarebbe ancora disponibile nel 3001 potrebbe perciò apparire ridicolmente miope fra un solo secolo, e l’attuale mancanza di turisti interstellari potrebbe essere semplicemente dovuta al fatto che non sia stato ancora collocato nessun equipaggiamento di accoglienza sulla Terra. Forse è già in strada a bordo di una scialuppa…
CAPITOLO 15: PASSAGGIO SU VENERE
È un grande piacere per me poter offrire questo tributo all’equipaggio dell’Apollo 15, Al ritorno dalla Luna mi hanno mandato la splendida mappa in rilievo della zona d’atterraggio del modulo lunare Falcon, che ora occupa il posto d’onore nel mio studio. Mostra le strade percorse dal veicolo lunare durante le sue tre escursioni, una delle quali sfiorava un cratere illuminato dalla Terra. La mappa porta l’iscrizione «Ad Arthur Clarke dall’equipaggio di Apollo 15 con molti ringraziamenti per le sue visioni dello spazio. Dave Scott, Al Worden, Jim Irwin». In cambio, adesso ho dedicato Earthlight (scritto nel 1953 e ambientato nel territorio che il veicolo lunare avrebbe percorso nel 1971) «a Dave Scott e Jim Irwin, i primi uomini a penetrare in questa terra, e ad Al Worden che vegliò su di loro dall’orbita».
Dopo aver seguito l’atterraggio di Apollo 15 negli studi della CBS insieme con Walter Cronkite e Walli Schirra, volai al Controllo Missione per assistere al rientro e all’ammaraggio. Sedevo di fianco alla figlioletta di Al Worden: fu la prima ad accorgersi che uno dei tre paracadute della capsula non si era aperto. Fu un momento di tensione, ma fortunatamente i restanti due erano più che sufficienti per il bisogno.
CAPITOLO 16: ALLA TAVOLA DEL COMANDANTE
Si veda il capitolo 18 di 2001: Odissea nello spazio per la descrizione dell’impatto della sonda. Un esperimento precisamente dello stesso genere è stato programmato per la prossima missione Clementine 2.
Ho provato un certo imbarazzo constatando che nella mia prima Odissea nello spazio la scoperta dell’asteroide 7.794 era attribuita all’Osservatorio Lunare… nel 1997! Be’, lo sposterò al 2017, in tempo per il mio centesimo compleanno.
Poche ore dopo aver scritto quanto sopra, ho saputo con piacere che l’asteroide 4.923 (1981 E027), scoperto da SJ. Bus a Siding Spring, Australia, il 2 marzo 1981, è stato chiamato Clarke, in parte anche come riconoscimento del Progetto Guardia Spaziale (si veda Incontro con Rama e The Hammer of God). Mi hanno informato, con profonde scuse, che a causa di una malaugurata svista il Numero 2001 non era più disponibile, essendo stato assegnato a un tizio di nome A. Einstein. Tutte scuse…
Ma mi ha fatto molto piacere sapere che l’asteroide 5.020, scoperto lo stesso giorno del 4.923, è stato chiamato Asimov benché sia rattristato dal fatto che il mio vecchio amico non potrà mai saperlo.
Come spiegato nel «Commiato», e nelle «Note dell’Autore» di 2010: Odissea due e 2061: Odissea tre, ho sperato che l’ambiziosa Missione Galileo su Giove e le sue lune ci avrebbe ormai offerto conoscenze molto più particolareggiate — oltre che stupefacenti primi piani — di questi strani mondi.
Be’, dopo molti rinvii, Galileo ha raggiunto il primo obiettivo — lo stesso Giove — e sta comportandosi ammirevolmente. Ma ahimè, c’è un problema: per qualche motivo, l’antenna principale non è mai uscita. Ciò significa che le immagini devono essere rimandate tramite un’antenna a bassa risoluzione e a un ritmo penosamente lento. Anche se sono stati fatti miracoli di riprogrammazione del computer di bordo per ovviare a questo inconveniente, ci vorranno ancora ore per ricevere informazioni che sarebbero dovute arrivare in minuti.
Perciò dobbiamo aver pazienza — e io mi sono trovato nell’allettante posizione di esplorare Ganimede nella finzione, poco prima che Galileo cominciasse a farlo in realtà il 27 giugno 1996.
L’11 luglio 1996, solo due giorni prima di finire questo libro, ho ricevuto le prime immagini dalle lune di Giove: fortunatamente nulla finora contraddice le mie descrizioni. Ma se le attuali visioni di distese di ghiaccio piene di crateri lasciassero improvvisamente il posto a palmizi e a spiagge tropicali — o, peggio ancora, a cartelli con scritto YANKEE GO HOME — mi troverei in un bel pasticcio…
Sono particolarmente ansioso di vedere primi piani di «Ganymede City» (capitolo 17). Questa impressionante formazione è esattamente come l’ho descritta — nonostante abbia esitato a fornirla nel timore che la mia «scoperta» finisse in prima pagina sul National Prevaricator. Ai miei occhi appare notevolmente più artificiosa della ben nota «Faccia di Marte» con i suoi paraggi. E se le strade e i viali sono larghi dieci chilometri… be’, e allora? Forse i ganimedi erano GROSSI…
La città verrà rivelata dalle immagini 20637.02 e 20637.29 mandate dal Voyager della NASA o più comodamente nella Figura 23.8 della monumentale opera di John H. Rogers, The Giant Planet Jupiter (Cambridge University Press, 1995).
CAPITOLO 19: LA FOLLIA DEL GENERE UMANO
Per una prova visuale a sostegno della stupefacente asserzione di Khan secondo la quale la maggior parte del genere umano è stata almeno in parte in preda alla follia, si veda l’Episodio 22, «Meeting Mary», della mia serie televisiva Arthur C. Clarke’s Mysterious Universe. E si tenga presente che i cristiani rappresentano solo un piccolissimo sottoinsieme della nostra specie: quantità molto maggiori di devoti, rispetto a quelli che celebrano il culto della Vergine Maria, hanno offerto altrettanta devozione a divinità totalmente incompatibili come Rama, Kali, Siva, Thor, Wotan, Giove, Osiride ecc.
L’esempio più impressionante — e penoso — di un uomo brillante trasformato dalle proprie credenze in un pazzo furioso è quello di Conan Doyle. Benché le sue presunte capacità medianiche fossero state denunciate più volte come frodi, la sua fede in esse rimase intatta. E il creatore di Sherlock Holmes cercò persino di indurre il grande mago Harry Houdini a credere che le sue imprese fossero dovute al fatto che si «smaterializzava» — mentre invece si basavano spesso su trucchi che, come il dottor Watson si sarebbe compiaciuto di dire, erano «ridicolmente semplici» (si veda il saggio «The Irrelevance of Conan Doyle» in The Night Is Large, di Martin Gardner).
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