«Chiedo scusa alla corte, Vostro Onore.»
«Benissimo. Procediamo, avvocato.»
Schuster si rivolse di nuovo al teste.
«Vorrei sapere, signor Barrett, come mai avete sentito la necessità di visitare la Luna, quando ci sono tanti posti della Terra che non avete ancora visto.»
«Il nostro pianeta, per la verità, l’ho visto in lungo e in largo. Sono stato a tutt’e due i Poli, ho soggiornato all’albergo Everest, ho percorso il fondo degli oceani. Diciamo che la Terra non aveva più nulla di nuovo da offrirmi. Mentre la Luna era completamente nuova per me: un intero mondo da scoprire a meno di ventiquattr’ore di viaggio. Non ho saputo resistere alla tentazione.»
Hansteen ascoltava distratto la risposta di Barrett; in realtà, stava approfittando della chiacchierata del teste per esaminare il pubblico senza averne l’aria. Ormai si era formato un quadro abbastanza esatto dell’equipaggio e dei passeggeri e aveva capito su chi poteva contare quando fosse venuto il peggio, e da chi sarebbero venuti i guai.
Sull’equipaggio. si poteva contare senz’altro. Harris era un giovane in gamba, competente e poco ambizioso, soddisfatto del lavoro che faceva. Un uomo leale, coscienzioso e dotato di poca fantasia, che avrebbe fatto il suo dovere fino in fondo e sarebbe stato pronto a morire senza atteggiarsi a martire. Era una virtù che molti uomini più dotati di Harris non possedevano e che sarebbe stata preziosa a bordo del Selene, se tra cinque giorni le cose non fossero cambiate.
La signorina Wilkins, la hostess, era importante quasi quanto il capitano, sotto un certo punto di vista; Hansteen l’aveva già classificata come una ragazza intelligente, dal carattere forte e con un’istruzione superiore alla media. Hansteen sapeva per esperienza che si poteva sempre contare sulle hostess spaziali.
E i passeggeri? Naturalmente, si trattava di persone superiori alla media, e lo provava il fatto che si trovassero sulla Luna. C’era sicuramente un altissimo quoziente intellettuale rinchiuso dentro il Selene, ma l’ironia della sorte voleva che, in un simile frangente, il quoziente intellettuale non servisse a nulla. Ciò che occorreva era il carattere, la forza d’animo, o, per usare un termine più crudo, il coraggio.
Pochi uomini, ormai, sapevano cosa volesse dire il coraggio fisico. Dalla nascita alla morte, raramente si trovavano faccia a faccia col pericolo. Gli uomini e le donne a bordo del Selene non erano stati addestrati per affrontare le ore d’incubo che si preparavano, e lui non sarebbe riuscito ancora per molto a tenerli occupati con giochi e passatempi. Il commodoro Hansteen si guardò rapidamente attorno. A parte gli indumenti ridotti e l’aspetto un po’ disordinato, quelle ventuno persone erano ancora membri della società civile, ragionanti e dotati di autocontrollo. Quale di essi, si chiese il commodoro, sarebbe stato il primo a crollare?
Nel concetto dell’ingegner Lawrence, il dottor Lawson costituiva l’eccezione al vecchio adagio: «Sapere significa perdonare». L’avere scoperto, in via confidenziale, che l’astronomo aveva avuto un’infanzia infelice e tormentata e che era arrivato così in alto grazie unicamente al suo prodigioso intelletto, poteva servire a compatirlo, ma non a trovarlo simpatico. Era una vera sfortuna, sempre nel concetto dell’ingegner Lawrence, che Lawson fosse l’unico scienziato, in un raggio di trecentomila chilometri ad avere un rivelatore a raggi infrarossi e a saperlo usare.
In quel momento, Lawson era seduto al posto di guida nella Slitta Due, intento a dare gli ultimi ritocchi al congegno rudimentale ma efficacissimo che era riuscito a mettere insieme. Un treppiede da macchina fotografica era stato montato sul tetto del piccolo veicolo, e su questo era stato avvitato il rivelatore, in modo tale che l’apparecchio potesse operare in tutte le direzioni.
Pareva che il congegno funzionasse, ma era difficile stabilirlo all’interno del piccolo hangar pressurizzato che aveva fonti di calore dappertutto. La vera prova si sarebbe potuta fare soltanto al largo, nel Mare della Sete.
«È pronto» annunciò finalmente Lawson. «Vorrei solo dire due parole all’uomo che guiderà la slitta.»
L’ingegnere capo lo fissò con aria pensosa, ancora incerto sul da farsi. C’erano infatti molti «pro» e «contro» riguardo all’idea che gli era venuta, e Lawrence si sforzò di prendere la sua decisione senza tenere conto dei sentimenti personali. Ora non c’era tempo per certe sciocchezze.
«Siete capace di indossare una tuta spaziale, vero?» domandò a Lawson.
«Non l’ho mai fatto in vita mia. Si mettono solo per andare nel vuoto, all’esterno, e questo lo lasciamo fare agli ingegneri.»
«Bene, allora vi si presenta l’occasione di provare» disse Lawrence, ignorando la frecciata. (Ma era poi una frecciata? Forse la scortesia di Lawson non era calcolata, forse era solo indifferenza per le forme.) «P, una cosa da nulla, quando si sta sopra una slitta. Non dovete fare altro che stare seduto tranquillamente al posto del passeggero, e il regolatore automatico penserà lui all’ossigeno, alla temperatura e a tutto il resto. C’è un solo problema…»
«E sarebbe?»
«Soffrite per caso di claustrofobia?»
Tom esitò, non volendo ammettere di avere qualche debolezza. Certo, non ne soffriva in forma acuta, altrimenti non sarebbe potuto vivere a bordo di un satellite artificiale, o salire su una nave spaziale. Ma tra nave spaziale e tuta spaziale c’era una bella differenza.
«Posso farcela benissimo» rispose.
«Non forzatevi, se non ve la sentite» insistette Lawrence. «Sarei contento se veniste con noi, ma non voglio costringervi a eroismi inutili. Pensateci bene fin che siamo in tempo. Una volta usciti in mare aperto, potrebbe essere tardi per pentirsene.»
Tom guardò la slitta mordendosi le labbra. L’idea di andarsene a spasso su quell’infernale distesa di polvere, a bordo di quella trappola, gli pareva pura follia; eppure, quegli uomini lo facevano tutti i giorni. E se per caso il rivelatore si guastava, c’era almeno qualche speranza che lui potesse aggiustarlo.
«Qui c’è una tuta della vostra misura» disse Lawrence. «Provatela, prima di prendere una decisione.»
Tom s’infilò nell’indumento flaccido e al tempo stesso crocchiante, chiuse la cerniera sul davanti e rimase là, ancora senza il casco, con la sensazione d’essere un pagliaccio. La bombola d’ossigeno che faceva parte dell’insieme sembrava incredibilmente piccola, e Lawrence notò lo sguardo preoccupato dell’astronomo.
«Quella è solo la riserva; dura quattro ore, ma non ne avrete bisogno. Il serbatoio dell’ossigeno è sulla slitta. Attento al naso… ora vi infilo il casco.»
Tom comprese, dall’espressione con cui gli altri lo guardavano, che quello era il momento in cui si distinguevano gli uomini dai ragazzi. Fino a che quel casco non veniva chiuso, si faceva ancora parte della razza umana; dopo, si restava soli, in un piccolo mondo meccanico tutto proprio. Potevano esserci dei compagni a pochi centimetri di distanza, ma bisognava guardarli attraverso uno spesso visore di plastica, parlare con loro a mezzo radio. Non si poteva nemmeno toccarli, se non attraverso un doppio strato di pelle artificiale. Qualcuno aveva scritto che morire dentro una tuta spaziale voleva dire morire «più solo di un cane». Per la prima volta, Tom si rese conto che doveva essere proprio vero. La voce dell’ingegnere capo risuonò all’improvviso attraverso i piccoli altoparlanti sistemati all’interno del casco.
«L’unico comando che dovete imparare a usare è quello di comunicazione… quel pulsante alla vostra destra. Normalmente, sarete sempre in comunicazione col pilota; il circuito resterà sempre aperto, finché sarete entrambi a bordo, e potrete comunicare come vorrete. Ma quando il contatto cessa, bisogna usare la radio… come fate adesso mentre ascoltate me. Schiacciate quel pulsante con scritto Trasmissione e rispondetemi.»
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