Rispose freddamente, convinto che facessi il furbo: — Direi che sei impazzito.
Mi alzai e posai il bicchiere.
— Proprio ciò che temevo — commentai.
Anche Joy si alzò. — Andiamo via, Parker — disse. — Inutile restare qua.
— Ma Parker! — gridò il Vecchio. — Tu mi stai prendendo in giro!
— Un corno — risposi.
Uscimmo.
Speravo che il capo mi richiamasse, ma non lo fece. Mentre cominciavamo a scendere le scale, senza aspettare l’ascensore, ebbi un’ultima rapida visione del Vecchio seduto a meditare. Si sarà chiesto se dovesse sentirsi offeso con noi, o se addirittura non fosse meglio licenziarci entrambi, o se invece paradossalmente non ci fosse sotto qualcosa di vero. Mi appariva così piccolo, in lontananza, come attraverso un binocolo rovesciato.
Facemmo tre piani di scale, chissà perché a piedi. Forse volevamo uscire di lì il più presto possibile.
Fuori piovigginava. Un’acquerugiola noiosa, fredda. Andammo alla macchina e ci fermammo accanto allo sportello, indecisi, confusi, senza bene sapere che fare.
Ripensavo alla cosa (che cosa?) dentro l’armadio del mio appartamento e a ciò che era successo alla mia auto. Anche Joy doveva chiedersi che razza di esseri avessero trafficato intorno a casa sua, e se si trovassero ancora là.
Si fece più vicina, le passai un braccio intorno alle spalle, senza dire niente, lì alla pioggia e nell’oscurità. Pensai che eravamo come i due bambini che si erano persi nella foresta, e la strinsi con più forza. Per la prima volta in vita nostra, avevamo paura del buio.
— Guarda qua, Parker — disse Joy.
Stese la mano aperta, a mostrarmi qualcosa che aveva tenuto a lungo chiuso nel pugno. Mi chinai a osservare, alla luce fioca del lampione all’altra estremità dell’isolato.
Era una chiave.
— È quella del laboratorio di Carleton — disse. — L’ho sfilata dalla toppa mentre nessuno mi guardava, quando siamo usciti. Quel poliziotto ha chiuso senza curarsi della chiave. Gli era andato il sangue alla testa, quando tu gli hai chiesto se voleva una dichiarazione anche dal cane.
— Ottimo lavoro! — dissi. Le presi il viso tra le mani e la baciai. Benché neanche adesso riesca a spiegarmi perché fossi tanto contento di aver trovato la chiave del laboratorio. Ma, direi, che dipendeva dal fatto che aveva di nuovo beffato le autorità, e perché in quel gioco mortale avevamo appena guadagnato un bonus.
— Andiamo a dare un’occhiata — propose Joy.
Prendemmo posto in macchina. Introdussi la chiave dell’accensione e la girai, dando il contatto al motorino di avviamento. Subito dopo, sebbene avvertissi che il motore si era già avviato, tentai di estrarla precipitosamente, ma ormai l’avevo fatto.
Però non accadde nulla. Il motore girava tranquillamente. Nessun problema. Nessuna bomba.
Sudavo freddo.
— Che c’è, Parker?
— Niente — risposi. Inserii la marcia e mi avviai. Pensai che già altre volte avevo messo in moto senza rendermi conto del pericolo. Prima a casa Belmont, poi per due volte davanti alla facoltà di Biologia, e infine lasciando il posto di polizia. Forse quelle bocce non ripetevano per la seconda volta un tentativo fallito la prima volta.
Svoltai per una strada laterale, verso il viale dell’Università.
— Sarà come cercare un ago in un pagliaio — disse Joy. — Magari troveremo anche il portone chiuso.
— Quando siamo usciti, era aperto — risposi.
— E se il portinaio l’avesse chiuso?
Non lo aveva fatto.
Attraversammo l’ingresso e ci avviammo su per le scale, con la massima calma possibile.
Davanti alla porta del laboratorio di Stirling, Joy mi passò la chiave. Entrammo e richiudemmo la porta con il catenaccio.
Sul banco del laboratorio era acceso un piccolo fornello a spirito, mai stato lì prima. Seduta su uno sgabello, accanto al tavolo, una figura umana stranamente distorta.
— Buonasera, amici miei — disse.
Dalla voce, con la sua pronuncia perfetta, non potevo sbagliare.
Era Fletcher Atwood.
Rimanemmo impalati a fissarlo, mentre lui ci rivolgeva un sorrisetto idiota. Forse voleva essere un sorrisetto ironico, ma era idiota.
— Se vi sembro un po’ strano — disse — è perché una parte di me non è qui. È rimasta a casa.
Alla debole luce della fiammella, infatti, riuscimmo a vedere che il suo corpo appariva come contorto, asimmetrico, più piccolo di quello di un uomo normale. Un braccio era più corto dell’altro, il corpo era sottilissimo, il volto enorme. Tuttavia gli abiti gli aderivano alla perfezione, come se fossero stati fatti su misura.
— E le manca anche il modello — dissi.
Dalla tasca del soprabito pescai il pupazzo che avevo raccolto sul pavimento della stanza sotterranea di casa Belmont.
— Non vorrei che soffrisse la sua mancanza — gli dissi, lanciandogli il pupazzo. Atwood lo afferrò al volo, con il braccio più corto, nonostante la scarsa luce. Al contatto con le dita della sua mano, il pupazzo si disciolse immediatamente, come se fosse stato succhiato all’interno del corpo, attraverso la mano e il braccio.
In un attimo i difetti scomparvero. Il braccio che prima era stato più corto divenne normale, la faccia riacquistò le giuste proporzioni. Scomparve ogni asimmetria. Ma gli abiti ora non calzavano più bene. Una manica raggiungeva appena la metà del braccio. Inoltre Atwood rimaneva molto più piccolo di quanto ricordassi.
— La ringrazio — mi disse. — È di grande aiuto: così non avrò più bisogno di concentrarmi per mantenere la forma.
La manica cominciò ad allungarsi sul braccio, a vista d’occhio. Anche gli altri indumenti gli si stavano adattando perfettamente.
— Che seccatura, questi vestiti — commentò.
— Questo spiega il gran numero di abiti appesi nel vostro ufficio — dissi.
Mi guardò sorpreso, quindi aggiunse: — Già, dimenticavo che è stato anche là. Devo ammettere, signor Graves, che lei si trova sempre al posto giusto nel momento giusto.
— Fa parte del mio mestiere — risposi.
— Chi è la persona che la accompagna?
— Dimenticavo di fare le presentazioni. La signorina Kane. Il signor Atwood.
Atwood guardò Joy con attenzione. — Mi sia consentito dire che avete il più complicato sistema riproduttivo che io abbia mai visto — disse.
— A noi piace — obiettò Joy.
— Può darsi, ma rimane una scocciatura — proseguì Atwood. — L’avete reso complicato e noioso con le vostre convenzioni sociali e con i precetti della morale. Tolto questo, suppongo che sarebbe perfetto.
— Non può immaginare quanto — commentai.
— Signor Graves — rispose — deve capire che, anche se scimmiottiamo i vostri corpi, non esplichiamo necessariamente tutte le attività a essi connesse.
— I nostri corpi, e magari qualcos’altro — dissi. — Come le bombe in macchina.
— Ah, sì! — osservò. — Cose semplici come quella.
— O una trappola davanti a una porta? — incalzai.
— Anche quella, molto semplice. Le cose complesse sono al di là della nostra portata.
— Ma perché quella trappola? — chiesi. — Vi siete incastrati con le vostre mani. Non sapevo nulla di voi, non sognavo neanche la vostra esistenza, e invece mi piazzate quella trappola! Se non l’aveste fatto, forse…
— Sarebbe venuto a saperlo, in un modo o nell’altro — rispose. — Lei è una persona in grado di collegare i fatti più disparati. Noi la conoscevamo bene, da tanto tempo, forse da prima ancora che lei conoscesse se stesso. Sapevamo quello che poteva fare e quello che avrebbe fatto. Abbiamo la facoltà di prevedere l’immediato futuro. Non sempre, ma in determinate circostanze.
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