Quando avevo aperto la scatola delle cartucce, alcune erano cadute sul pavimento. Stirling le aveva raccolte: ma poi le aveva date a me, o se l’era messe in tasca, o le aveva lasciate sul banco? Mi sforzai disperatamente di ricordare, ma senza successo. Se gli inquirenti avessero scovato quelle cartucce, avrebbero potuto collegare il mio fucile al laboratorio, e questo non avrebbe fatto che rafforzare i loro sospetti.
Se solo ci fosse stato tempo, avrei potuto spiegare tutto. Ma non ce n’era. Le spiegazioni, poi, avrebbero sollevato un vespaio, tra indagini e interrogatori, con lo scetticismo a condire tutto. Quando alla fin fine avessi deciso di vuotare il sacco, la sede avrebbe dovuto essere qualcos’altro che un posto di polizia.
Non c’era speranza di riuscire, da solo, a districare quella matassa. Dovevo trovare qualcuno che ne fosse in grado. Spiace dirlo, ma i piedipiatti non erano il soggetto adatto.
Diedi ancora un’occhiata in giro per il laboratorio, cercando il sacco. In quel momento, con la coda dell’occhio notai qualcosa che si muoveva strisciando nel lavabo. Ebbi la netta sensazione che una forma nera, simile a una lumaca, avesse sporto la testa al di sopra del margine del lavandino per guardare intorno, ritirandosi subito dopo.
— Andiamo? — disse Liggett.
— Certo — risposi.
Presi Joy per un braccio. Tremava; non visibilmente, ma lo percepivo.
— Coraggio, tesoro — dissi. — Il tenente vuole solo una dichiarazione.
— Da ognuno di voi — aggiunse Liggett.
— Anche dal cane? — chiesi. Dalla sua espressione capii che avrei fatto meglio a tenere il becco chiuso.
Ci avviammo. Quando fummo alla porta, Joe disse: — Parker, sei sicuro che non ci sia niente da dire al Vecchio?
Mi voltai a osservare lui e il poliziotto, e risposi sorridendo: — No, niente da dichiarare.
Uscimmo. Noi davanti, Joe e Liggett dietro. L’investigatore chiuse a chiave la porta del laboratorio.
— Voi due precedetemi alla centrale con la vostra auto — ordinò Liggett. — Io vi seguirò con la mia.
— Grazie — dissi, per quel gesto di fiducia. Scendemmo le scale.
— Il Cane! — mi sussurrò Joy.
— Lo metterò a tacere — risposi.
Fino a tempi migliori, avrebbe dovuto limitarsi a fare la parte del cucciolo giocherellone. La situazione era già abbastanza grave, senza che ci si mettesse pure lui.
Ma non c’era di che preoccuparsi.
Il sedile posteriore era vuoto. Non c’era più alcuna traccia del Cane.
Il tenente ci fece entrare in una stanza, o per meglio dire un buco, e ci lasciò soli.
— Sarò di ritorno fra un minuto — disse.
La stanza era piccola. Un tavolo minuscolo. Le sedie, scomode. C’era poca aria e poca luce. Faceva freddo.
Joy, pur essendo spaventata, era brava a non lasciarlo vedere.
— E adesso? — mi chiese.
— Non so — risposi. Poi aggiunsi: — Mi spiace di averti coinvolta.
— Ma non abbiamo fatto niente di male — commentò.
Proprio così. Non avevamo fatto niente, e tuttavia c’eravamo dentro fino al collo. Avevamo anche validissime spiegazioni per chiarire la faccenda, ma chi ci avrebbe creduto?
— Berrei volentieri qualcosa — disse Joy.
Anch’io. Ma non lo dissi.
I secondi passavano con estenuante lentezza. Pensavo a Carleton Stirling. Era stato uno dei miei migliori amici, un tipo straordinario. Cominciavo ora a rendermi conto della sua scomparsa. Non sarei più andato da lui, al laboratorio, a guardarlo lavorare, ad ascoltarlo.
Anche Joy doveva star pensando alla stessa cosa, perché chiese: — Pensi che sia stato qualcuno a ucciderlo?
— Non qualcuno — precisai. — Qualcosa.
Ero sicuro che erano state quelle sfere che gli avevo portato, avvolte nel sacco di plastica, ad ammazzarlo. Ero stato proprio io a portargli la morte.
— Tu non ne hai colpa — disse Joy. — Come potevi immaginare?
Vero, ma la considerazione non mi era d’aiuto. In quel momento la porta si aprì, ed entrò il Vecchio, da solo.
— Venite — disse. — Tutto a posto. Non sarete torchiati.
Ci alzammo e ci avvicinammo alla porta. Avevo un’aria interrogativa. Il direttore scoppiò in un risolino: — Oh, non c’è stato bisogno di usare la mia influenza per tirarvi fuori.
— E allora come si spiega? — chiesi.
— Il medico legale ha accertato che la morte è stata causata da un attacco cardiaco.
— Stirling non soffriva di cuore — dissi.
— Non hanno trovato niente. Dovevano pure attribuire la morte a qualche causa.
— Andiamo via — proruppe Joy. — Questo posto mi deprime.
— Sali in ufficio — mi disse il capo. — Mentre ti scoli un bicchiere, vorrei chiederti un paio di cose. Vieni anche tu, Joy, o hai fretta di tornare a casa?
Joy trasalì. — Vengo anch’io, grazie — disse.
Sapevo perché Joy rabbrividiva. Non voleva tornare dentro quella casa, dove aveva sentito il rumore di quegli esseri che si aggiravano nel giardino. Temeva di sentirli ancora, anche se non ci fossero stati.
— Porta Joy con te — dissi al boss. — Ti seguo con la sua macchina.
Una volta all’aperto, fummo tutti piuttosto taciturni. Mi aspettavo che il Vecchio facesse domande sulla mia macchina saltata in aria, e magari su un sacco di altre cose, ma disse solo qualche frase di circostanza. Idem in ascensore, mentre salivamo al suo ufficio. Quando entrammo, si diresse direttamente all’armadietto bar e tirò fuori il necessario.
— Per te scotch, Parker — si ricordò. — E per te, Joy?
— Lo stesso, grazie — rispose Joy.
Ci servì da bere, ma non andò a sedere alla scrivania, e si mise su una delle sedie con noi. Probabilmente non voleva assumere il tono ufficiale del capo, in quell’occasione. A volte rasentava il ridicolo con le sue professioni di umiltà; altre volte, non gliene restava un briciolo.
Si capiva che voleva dirmi qualcosa, ma non sapeva da dove cominciare. Da parte mia, non feci niente per aiutarlo. Rimasi a sedere, rigirando il bicchiere tra le mani, continuando a chiedermi se sapesse qualcosa o se avesse una minima idea di ciò che stava accadendo.
Con un flash improvviso, ebbi la rivelazione che il referto medico non era stato di attacco cardiaco, e che il Vecchio aveva fatto pesare, eccome, la sua influenza. Era venuto a tirarci fuori dal cappio perché aveva fiutato uno scoop.
— Che giornata — disse lui, alla fine.
Annuii. Aggiunse qualche cosa sulla stupidità della polizia, e io assentii.
Finalmente entrò in argomento. — Parker — mi disse — devi aver messo le mani su qualcosa di grosso.
— Forse — risposi. — Ma è troppo presto per dirlo.
— Be’, abbastanza grosso, se qualcuno ha cercato di ammazzarti.
— Già — dissi.
— Perché non ti sbottoni? — propose. — Se si tratta di qualcosa che deve restare insabbiato, puoi contare su di me.
— È una cosa che non posso ancora dirti — risposi. — Se lo facessi, mi prenderesti per pazzo. Non crederesti a una sola parola. Devo raccogliere altre prove, prima di fare rivelazioni.
Mi guardò sorpreso. — Così grosso — esclamò.
— Così grosso — ammisi.
Avrei voluto raccontargli tutto. Sentivo il bisogno fisico di parlarne a qualcuno, di rendere altri partecipi del terrore e dell’angoscia che sentivo. Qualcuno disposto a crederci, e altrettanto disposto almeno a provare a far qualcosa.
— Boss, ascolta — gli dissi. — Riesci per un attimo a mettere da parte qualsiasi pregiudizio? Sei pronto ad accettare come possibile qualunque cosa io dica?
— Proviamo — disse.
— All’inferno, così non basta!
— Va bene. Ci sto.
— E se affermassi che gli alieni sono scesi sulla Terra per comprarla?
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