La donna — statuaria e dai capelli rossi — che stava dietro il banco rispose in tono annoiato: «Aspetti un momento». Cercò in giro e infine trovò una cartina; la stese sul banco. «Ecco», disse, scegliendo un quadratino e indicandolo con il dito bianco, grasso, dalle unghie laccate di rosso. «Questa è la Galleria d’Arte.»
«Ma non so dove mi trovo. Dove siamo? Dov’è la stazione?»
«Qui», mi rispose, indicando un altro quadrato sulla cartina, a dieci o dodici isolati dalla Galleria d’Arte. «Meglio andare finché dura la configurazione. Oggi vuole piovere.»
«Posso tenere la cartina?» le chiesi in tono un po’ piagnucoloso. Lei annuì.
Mi avventurai lungo le strade della città, con tutta la diffidenza possibile: camminavo a piccoli passi, come se il marciapiedi potesse trasformarsi in un abisso sotto i miei piedi, o una rupe levarsi all’improvviso davanti a me, o l’incrocio trasformarsi nel ponte di una nave in mezzo al mare. Però, fortunatamente, non successe nulla.
Le strade della città, larghe e piane, si incrociavano a distanze regolari, silenziose, senza alberi che frusciassero. Autobus e taxi elettrici passavano senza alcun rumore; non si scorgevano auto private. Proseguii. Grazie alla cartina, in breve arrivai alla Galleria d’Arte, aveva i gradini di pietra sedimentaria scura, anziché del marmo verde e bianco che ricordavo, ma il resto era uguale. Di solito non ho molta memoria.
Entrai e mi diressi al guardaroba per farmi dare l’impermeabile. Mentre l’inserviente lo cercava — una ragazza dai capelli corvini e dagli occhi che sembravano d’argento, con labbra sottili e nere — mi chiesi perché mi fossi voluta informare, alla stazione, sull’ora di partenza del prossimo treno. Dove pensavo di andarmene? La sola cosa che mi interessasse era il mio impermeabile lasciato presso la Galleria. Se ci fosse stato un treno, vi sarei salita? E dove sarei scesa?
Non appena recuperato il mio capo di vestiario, scesi in fretta gli scalini e corsi per le stradine ripide, acciottolate, in mezzo a due file di casette dai deliziosi balconcini, tra la folla di uñiati, composta di individui sottili, quasi scheletrici e dalle labbra nere.
Intendevo raggiungere l’Ostello Interplanario e farmi dare una spiegazione. Probabilmente c’era qualcosa nell’aria, pensavo, mentre la nebbia diventava più fitta e nascondeva i monti che dominavano sulla città e i tetti a punta delle case costruite sulle loro pendici. Forse gli uñiati fumavano qualche allucinogeno o c’era qualche polline o altro, nell’aria o nella nebbia, che alterava la mente, confondeva i sensi, oppure che — pensiero inquietante — cancellava segmenti di memoria, di modo che le cose sembravano succedere senza continuità: non ricordavo come fossi arrivata nei posti in cui mi ero ritrovata o cosa fosse successo nel tragitto fra l’uno e l’altro.
Non avendo una buona memoria, non ero in grado di dire se non ne avessi perso una parte. Per alcuni aspetti era come un sogno, ma io non sognavo certamente, ero soltanto confusa e sempre più allarmata, a tal punto che, nonostante il freddo e l’umidità, non mi fermai a infilare l’impermeabile, ma, rabbrividendo, proseguii lungo il sentiero della foresta.
Fiutai l’odore del fumo di legna, dolce e acre nell’aria umida, e dopo qualche tempo, in mezzo alla nebbia della sera che si raccoglieva attorno ai fusti e sembrava quasi palpabile, scorsi un lumicino. Accanto al sentiero sorgeva la capanna di un boscaiolo, con l’ombra di un giardinetto davanti alla cucina, il bagliore dorato del caminetto dietro lo stretto pannello di vetro della finestra, il fumo che s’innalzava dal comignolo. Un’immagine isolata e familiare. Bussai all’uscio e dopo quasi un minuto giunse un vecchio ad aprirmi. Era calvo, con un enorme bitorzolo sul naso; in mano teneva una padella in cui friggevano allegramente dei salamini.
«Ti posso concedere tre desideri», mi annunciò.
«Desidero tornare all’Ostello Interplanario», cominciai.
«Quello è il desiderio che non puoi vedere esaudito» , rispose il vecchio. «Piuttosto, perché non desideri che i salamini mi crescano dalla punta del naso?»
Dopo un breve istante di riflessione, risposi: «No».
«Allora, che cosa desideri, a parte tornare all’Ostello Interplanario?»
Riflettei ancora, e infine spiegai: «Quando avevo dodici o tredici anni, pensavo sempre a cosa avrei risposto se mi fossero stati concessi tre desideri. Pensavo che avrei detto: ‘Desidero, dopo essere vissuta bene fino a 85 anni e avere scritto alcuni ottimi libri, poter morire tranquilla, nella consapevolezza che tutte le persone a cui voglio bene sono felici e in buona salute’. E già allora sapevo che era un desiderio stupido, disgustoso. Pragmatico. Egoistico. Un desiderio da fifoni. Sapevo che non era giusto. Come desiderio non mi sarebbe mai stato approvato Inoltre, una volta formulato quello, come avrei utilizzato gli altri due desideri? All’epoca pensavo che con gli altri due avrei potuto chiedere che tutti al mondo fossero più felici, o che si smettesse di fare la guerra, o che l’indomani mattina ci si svegliasse sentendosi davvero |buoni e gentili con chiunque, per tutto il giorno, anzi per tutto l’anno, anzi per sempre, ma a quel punto mi accorgevo che non credevo veramente a nessuno dei tre desideri e che li consideravo, appunto, solo desideri.
«Finché rimanevano nella categoria dei desideri erano ottimi, persino utili, ma non potevano andare molto più in là del desiderio stesso.
«’Nulla di quel che faccio potrà permettermi di raggiungere una meta che non sia alla mia portata’, come disse il re Yudhishthira nello scoprire che il paradiso non era esattamente come da lui sperato.
«Ci sono ostacoli che neppure il cavallo più coraggioso può superare. Se i desideri fossero cavalli, ne avrei un’intera mandria, roani e sauri, incantevoli cavalli selvaggi che non hanno mai conosciuto la briglia, che non sono mai stati domati, che galoppano lungo la pianura fra rosse mesa e montagne azzurre. Ma i fifoni stanno in sella a cavalli a dondolo fatti di legno e con gli occhi dipinti con la vernice, e vanno su e giù, su e giù, sempre nello stesso punto della stanza dei giochi, su e giù, e le pianure, le mesa e i monti sono solo negli occhi del cavaliere. Perciò, lascia perdere i tre desideri e, piuttosto, passami un salamino».
Mangiammo insieme, il vecchio e io. I salamini erano eccellenti, e così il purè e le cipolle fritte. Non avrei potuto desiderare una cena più appetitosa.
Poi sedemmo insieme e rimanemmo per qualche minuto in silenzio, a fissare il fuoco; infine lo ringraziai dell’ospitalità e gli chiesi come raggiungere l’Ostello Interplanario.
«È una notte pazza», osservò lui, dondolando sul dondolo.
«Domattina devo essere a Memphis», gli spiegai.
«Memphis», ripeté lui, pensoso. O forse disse: «Mem-fish», come il pesce. Dondolò un altro po’ e continuò: «Ah, bene, allora. Meglio andare a est».
E, dato che proprio in quel momento un intero gruppo di persone eruppe da una stanza interna che non avevo notato fino a quell’istante — gente dalla pelle bluastra e dai capelli d’argento, in smoking o vestito da cocktail con le spalle fuori e minuscole scarpe a punta, che discuteva in tono acuto, rideva forte e gesticolava in modo esagerato, battendo gli occhi, ciascuno con un calice pieno di qualche liquido oleoso e un’oliva verde imbalsamata e sola — non mi parve il caso di fermarmi, ma uscii di corsa nella notte, che evidentemente era pazza solo nella capanna del vecchio, perché lì fuori, sulla spiaggia, regnava il silenzio, la mezza luna brillava sull’acqua placida e nera che sospirava e scivolava piano sull’ampia curva della riva.
Non avendo idea della direzione in cui era l’est, mi diressi a destra, dal momento che in genere ho l’impressione che l’est stia bene a destra e che l’ovest si accordi meglio con la sinistra; questo potrebbe significare che sono rivolta a nord per gran parte del tempo.
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