Ci sono persone che trovano esilarante il terrore e che riprendono a fare parapendio non appena si sono tolte il gesso delle fratture. Invece io scendo un passo la volta dalla scaletta, tengo ben saldo il corrimano e giuro di mai più salire ad altezze superiori al palmo.
Di conseguenza non volo più del minimo necessario e quando finisco intrappolata negli aeroporti non cerco i piani pericolosi, ma quelli pacifici, noiosi, ordinari, normalmente complicati, dove non corro il rischio di impazzire per lo spavento, ma mi allarmo soltanto un pochino, un po’ come capita ai codardi, per tutta la vita.
Mentre attendevo all’aeroporto di Denver dopo avere perso la coincidenza, attaccai bottone con una simpatica coppia che arrivava giusto allora da Uni. Mi dissero che era un bel posto.
Dato che erano due persone di mezza età, lui con un costoso videoregistratore e aggeggi elettronici assortiti, lei con i fuseaux e sandali infradito bianchi e tutt’altro che temerari, pensai che non avrebbero dato quel giudizio se fosse stato un luogo veramente pericoloso. Fu una supposizione molto stupida da parte mia.
Avrei dovuto rizzare le antenne nell’accorgermi che le loro descrizioni erano piuttosto vaghe.
«Laggiù succedono un mucchio di cose», mi disse l’uomo. «Ma tutte come da noi. Non è uno di quei posti stranieri stranieri.» E la moglie aggiunse: «Un paese come nel libro delle favole! Esattamente come quello che si vede in TV».
Ma neanche questo riuscì a mettermi in sospetto.
«Il clima è molto bello», disse la moglie. Il marito corresse: «Variabile».
Per me andava bene. Avevo con me un impermeabile leggero, e al mio volo per Memphis mancava un’ora e mezza.
Mi recai su Uni.
Mi registrai presso l’Ostello Interplanario.
UN BENVENUTO AI NOSTRI AMICI DEL PIANO ASTRALE! diceva l’insegna sul tavolo. La donna pallida e robusta, dai capelli rossi, che stava al banco mi diede un translatomat e una cartina autocentrante della città, ma mi indicò anche un cartellone:
PROVATE IN REALTÀ VIRTUALE
IL NOSTRO TOUR DELLE BELLEZZE DI UÑI,
OGNI VENTI IZ!MIR.
«Le converrebbe provarlo», mi disse la donna.
In generale evito le esperienze di tipo «virtuale», che sono sempre registrate con un tempo migliore di quello che incontro nel luogo e che tolgono la novità a tutti gli spettacoli che vorresti vedere, senza dare alcuna vera informazione. Ma due pallidi, corpulenti impiegati mi spinsero — in modo amichevole quanto deciso — verso il cubicolo della realtà virtuale e io non ebbi il coraggio di ribellarmi.
Mi aiutarono a mettere l’elmetto sulla testa, mi avvolsero attorno al corpo la tuta e mi infilarono i guanti e le calze cablate. Poi rimasi a sedere del tutto sola, per quel che mi parve almeno un quarto d’ora, in attesa che cominciasse la proiezione, e passai tutto quel tempo cercando di vincere la claustrofobia, osservando i colori che mi ballavano negli occhi e chiedendomi a quanti minuti corrispondesse un iz!mit. O che il singolare fosse iz!m: un iz!m, due iz!mit? A meno che il plurale non fosse indicato da un prefisso, perché in tal caso il singolare sarebbe stato z!mit.
Però, dopo un poco, visto che non succedeva niente, che l’almanaccare sulla grammatica mi era venuto a noia, decisi di mandare al diavolo l’intera esperienza. Scivolai fuori dalla tuta della realtà virtuale, passai con indifferenza colpevole davanti agli impiegati e mi trovai fuori dall’ostello, in mezzo alle piantine in vaso. I vasi di piante grasse davanti agli hotel sono uguali in tutti i piani.
Guardai la mia cartina autocentrante e mi diressi alla Galleria d’Arte, che era contrassegnata con tre stelle.
La giornata era soleggiata, ma fredda. La città, edificata principalmente in pietra grigia e con tetti di tegole rosse, aveva un’aria vecchia, sedentaria e prospera. La gente se ne andava per i propri affari senza prestare attenzione a me. Gli uñiati mi parevano in prevalenza corpulenti, con la pelle chiara e i capelli rossi. Tutti portavano soprabiti, gonne lunghe fino alle caviglie e stivali dalla suola spessa.
Arrivai alla Galleria d’Arte, in fondo al suo piccolo parco, ed entrai. Quasi tutti i quadri raffiguravano donne dai capelli rossi, dalla pelle bianca, un po’ grasse e senza vestiti, anche se alcune di loro portavano gli stivali. La tecnica pittorica era buona, ma non mi dicevano molto.
Stavo per uscire quando venni coinvolta in una discussione. Due persone — maschi, mi parve, anche se era difficile dirlo, sotto tutti quei soprabiti, gonne e stivali — discutevano davanti al ritratto di una donna obesa, rossa di capelli, sdraiata su un divano a fiori e vestita dei soli stivali. Mentre passavo, uno di loro si voltò verso di me e disse, o così il translatomat rese le sue parole: «Se la figura è l’elemento centrale compositivo nella tensione dei blocchi e delle masse, il dipinto non si può ridurre a uno studio della luce indiretta sulle superfici, vero?»
Lui (o lei) mi rivolse la domanda in modo così semplice e diretto, e con una tale urgenza, che io non potevo dire semplicemente: «Ha detto, scusi?» o scuotere la testa e fingere di non avere capito.
Tornai a guardare il quadro e risposi, dopo un momento: «Be’, forse, ma non utilmente».
«Ascoltiamo i fiati», intervenne l’altro e solo allora mi accorsi della musica ambientale, un pezzo orchestrale che non conoscevo, dominato al momento dagli strumenti a fiato, forti e lamentosi: oboe, forse, o fagotti nel registro acuto.
«Il cambio di chiave è decisivo», disse l’estimatore della musica, a voce! un po’ troppo alta. La persona seduta dietro di noi si sporse in avanti e fece: «Sssh!», per invitarci a tacere, mentre quella davanti si voltò a guardarci con aria di rimprovero.
Imbarazzata, rimasi perfettamente immobile per tutto il resto del movimento, che era molto bello, anche se i cambiamenti di chiave, o qualcosa del genere — la sola cosa che mi permetta di riconoscere un cambiamento di chiave è che mi vengono le lacrime agli occhi senza che ne sappia il perché — lo rendevano un po’ incoerente.
Con stupore vidi un tenore (o forse un contralto) che non avevo notato in precedenza: si alzò e iniziò a cantare a voce spiegata il tema principale, fino a terminare con una nota acuta che ottenne gli applausi del pubblico del grande auditorium. Battevano le mani, gridavano e chiedevano il bis. A un certo punto, un alito di vento, proveniente dalle alte montagne che s’innalzavano a ovest, attraversò la piazza del villaggio: tutti gli alberi rabbrividirono e si chinarono. Alzando lo sguardo verso le nubi che scorrevano sopra la mia testa, mi accorsi che stava per scoppiare un temporale.
Di momento in momento, le nubi diventarono sempre più scure, un altro forte soffio di vento colpì la piazza, sollevando polvere, foglie e spazzatura; mi dissi che avrei fatto bene a mettermi l’impermeabile. Ma l’avevo lasciato al guardaroba della Galleria d’Arte. Il mio translatomat era agganciato al bavero della giacca, ma la cartina autocentrante era nella tasca dell’impermeabile. Raggiunsi lo sportello della stazioncina e chiesi l’orario del prossimo treno, ma l’uomo con un occhio solo, dietro la sottile grata di ferro battuto, rispose: «Non abbiamo più i treni».
Mi voltai a guardare i binari vuoti, che si allontanavano all’infinito sotto le grandi pensiline ad arco, un binario dopo l’altro, ciascuno con il suo numero e il suo cancelletto. Qua e là c’era un carrello per i bagagli e un unico distante passeggero camminava oziosamente lungo la piattaforma, ma nessun treno. «Ho bisogno del mio impermeabile», spiegai, in una sorta di panico.
«Provi agli Oggetti Smarriti», mi rispose l’impiegato monocolo, poi si immerse di nuovo nei suoi moduli e nei suoi orari. Attraversai il grande spazio vuoto della stazione, per raggiungere l’entrata. Dopo il ristorante e il bar trovai l’ufficio Oggetti Smarriti. Entrai e chiesi: «Ho lasciato l’impermeabile alla Galleria d’Arte. Ma adesso ho perso la Galleria».
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