«Comunque ero deciso a tenere i piedi a terra, in ogni senso. Se mai mi fosse venuta qualche idea infantile di volare per un breve tempo — idea che in realtà non mi è mai venuta, una volta terminata la febbre e il delirio e fatta pace con l’intero doloroso, dispendioso processo… — se mai avevo pensato di volare, una volta sposato, una volta che abbiamo avuto un figlio, niente, ma proprio niente può indurmi a desiderare anche solo un assaggio di quella vita. Non ci penso neanche per un momento. L’assoluta mancanza di responsabilità, l’arroganza dei volatori, mi disgustano.»
Parlammo per qualche tempo della sua attività di avvocato, che era ammirevole, dedicata alla tutela dei poveri contro gli imbroglioni e i profittatori. Mi mostrò un incantevole ritratto dei suoi due figli, di undici e di nove anni, da lui disegnato con una delle sue penne. Il rischio che uno dei figli mettesse le ali era, come per qualsiasi altro gy, uno su mille.
Poco prima di andarmene, gli chiesi: «Non sogni mai di volare?»
Da buon avvocato, fu lento a rispondermi. Distolse lo sguardo, guardò fuori dalla finestra. «Non lo sognano tutti?» mi rispose infine.
Qualcuno mi aveva chiesto se sapevo dell’esistenza di immortali sul piano di Yendi, e qualcun altro mi aveva detto che ce n’erano. Di conseguenza, quando arrivai laggiù, chiesi informazioni.
Con una certa riluttanza, l’agente di viaggio mi mostrò su una cartina un posto chiamato l’Isola degli Immortali. «Non vorrà certo andarci», mi disse.
«Non voglio?»
«Be’, è pericoloso», mi spiegò, guardandomi come se fosse certa della mia non appartenenza alla categoria di chi ama il pericolo, giudizio sostanzialmente corretto.
Era un’agente locale senza grandi sottigliezze, non una dipendente del Servizio Interplanario. Yendi non è una destinazione molto frequentata. Sotto molti aspetti è talmente simile al nostro piano che non vale la pena di visitarla; ci sono alcune differenze, ma sottili.
«Perché è chiamata Isola degli Immortali?»
«Perché alcune delle persone sono immortali.»
«Allora non muoiono?» continuai io, che non ero mai del tutto sicura dell’accuratezza del mio translatomat.
«Non muoiono, no», mi rispose con indifferenza. «Però l’Arcipelago delle Prinjo è un luogo incantevole per trascorrerci un paio di settimane di riposo.» La sua matita si mosse verso sud, dall’altra parte del Gran Mare di Yendi. Il mio sguardo, però, rimase fisso sulla grande, solitaria Isola degli Immortali. Gliela indicai.
«C’è un hotel… laggiù?»
«Non è attrezzata per il turismo. Solo capanne per i cercatori di diamanti.»
«Ci sono miniere di diamanti?»
«Probabilmente», rispose lei, sprezzante.
«E qual è il pericolo?»
«Le mosche.»
«Le mosche pungono? Portano malattie?»
«No.» A quel punto cominciava a irritarsi.
«Mi piacerebbe andarci per un paio di giorni», le dissi io, nel tono più accattivante che trovai. «Tanto per vedere se sono coraggiosa. Se mi spavento, torno subito indietro. Mi dia un volo di andata e ritorno, col ritorno aperto.»
«Non c’è aeroporto.»
«Ah. E allora, come posso arrivare laggiù?» continuai, più accattivante che mai.
«Con la nave», mi rispose lei, per nulla accattivata. «Una la settimana.»
Niente porta all’ostinazione come l’ostinazione.
«Perfetto!» risposi.
Almeno, pensavo lasciando l’agenzia di viaggi, non sarà come Laputa. Avevo letto I viaggi di Gulliver da bambina in una edizione ridotta e chissà quanto epurata. Il mio ricordo di quella lettura era come tutti i miei ricordi di infanzia: immediato, spezzettato, vivido. Isole di qualche brillante particolarità in un vasto oceano di oblio. Ricordavo che Laputa viaggiava nell’aria e che di conseguenza occorreva usare una nave volante per raggiungerla. E in realtà ricordavo poco di più, a parte che gli abitanti di Laputa erano immortali e che, dei quattro viaggi di Gulliver, era quello che mi era piaciuto meno, tanto da farmi dire che era «per i grandi», caratteristica che all’epoca costituiva per me una condanna.
Gli abitanti di Laputa avevano macchie, nei, qualcosa del genere che li distingueva dagli altri? Ed erano studiosi? Diventavano imbecilli e continuavano a vivere eternamente nell’idiozia e nell’incontinenza… oppure ero io che me l’immaginavo? Avevano qualcosa del genere, qualcosa di antipatico, una cosa per i grandi.
Ma mi trovavo su Yendi, dove le opere di Swift non erano in biblioteca. Non potevo controllare. Allora, dato che avevo un’intera giornata prima che la nave partisse, mi recai in biblioteca e cercai ulteriori notizie sull’Isola degli Immortali.
La Biblioteca Centrale di Undund è un vecchio e nobile palazzo pieno di comodità moderne, compresi i leggomat. Chiesi aiuto a un bibliotecario ed egli mi portò le Esplorazioni di Postwand, scritto circa 160 anni prima, da cui ho copiato quanto segue:
(All’epoca in cui Postwand scrisse, la città portuale dove mi trovavo, An Ria, non era ancora stata fondata. Gli abitanti della costa erano tribù sparse di pastori e di contadini. Postwand si era interessato del loro folclore in modo intelligente, anche se con un po’ di superiorità.)
«Tra le leggende dei popoli della Costa Orientale» scrive, «una riguardava una grande isola, lontana due o tre giorni di viaggio, a occidente, dalla Baia di Undund, dove abita la gente che non muore mai.
« Tutti coloro a cui chiesi informazioni conoscevano la fama dell’Isola degli Immortali, e alcuni mi raccontarono che membri della loro tribù avevano visitato il luogo. Impressionato dall’uniformità dei racconti, decisi di mettere alla prova la loro attendibilità.
«Quando alla fine Vong ebbe terminato di riparare la mia barca, lasciai la Baia e feci vela a occidente sul Gran Mare. Un buon vento di poppa favoriva la mia spedizione.
«Verso il mezzodì del quinto giorno di viaggio avvistai l’isola. Priva di alture notevoli, pareva lunga almeno cinquanta miglia da nord a sud. Nella zona dove accostai inizialmente, la riva era totalmente composta di paludi d’acqua salata. Essendo un momento di bassa marea e il tempo insopportabilmente caldo, l’odore putrido del fango ci tenne a grande distanza finché non scorgemmo una spiaggia sabbiosa; là potei dirigermi verso una baia poco profonda, dove presto vidi i tetti di una piccola città accanto alla foce di un fiume.
«Legammo la gomena a un imbarcatoio rozzo e decrepito e con indescrivibile emozione, almeno per quel che mi concerne, mettemmo piede su quell’isola che aveva la fama di contenere il segreto della vita eterna.»
Penso che abbrevierò qualcosa della descrizione di Postwand; è prolisso e inoltre critica sempre il suo assistente Vong, che pare avere fatto la maggior parte del lavoro e che non provava mai nessuna di quelle emozioni «indescrivibili».
Lui e Vong visitarono la città, trovandola abbastanza male in arnese e per niente straordinaria, a parte la presenza di orribili sciami di mosche.
Tutti giravano con una copertura di garza da capo a piedi, e tutte le porte e le finestre erano protette da zanzariere. Postwand pensò che le mosche pungessero in modo selvaggio, ma scoprì che non era così; erano fastidiose, riferisce, però i loro morsi si sentivano a malapena e il punto colpito non dava prurito e non gonfiava. Si chiese se non portassero qualche malattia. Lo domandò alla gente dell’isola che disse di non conoscere malattie e che i soli che si ammalassero erano gli stranieri.
A quel punto Postwand cominciò a essere vivamente interessato, com’è ovvio, e domandò se non morissero. «Certo» gli risposero.
Non riferisce altro che gli abbiano detto, ma si ha l’impressione che lo trattassero come l’ennesimo idiota del continente venuto, a fare domande stupide. A quel punto Postwand si irrita e comincia a fare commenti sulla loro arretratezza, la cattiva educazione, e l’esecrabile modo di cucinare.
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