Ursula Le Guin - Su altri piani

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Su altri piani: краткое содержание, описание и аннотация

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L’antologia è composta da racconti legati da un filo conduttore descritto nel primo racconto che fa da introduzione agli altri. L’opera trae spunto dalla possibilità di spostarsi in dimensioni parallele, detti piani, e rappresenta una specie di diario di viaggio narrato in prima persona dall’autrice stessa come se fossero esperienze vissute in prima persona o riferite da autentici conoscenti. Ogni dimensione offre spunto per la descrizione di una realtà fantastica ed affascinante, spesso rappresentazione allegorica e satirica della nostra, ma sempre ricca di poesia, sul filone de
di Jonathan Swift.

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«Mi voltai e ora, davanti a me, si stendeva l’intera lunghezza della piazza del mercato, sgombra fino all’altro palazzo. Presi la rincorsa e mi levai in volo.

«Per qualche tempo mi limitai a volare basso nella piazza del mercato, per imparare come virare e come scivolare d’ala, come usare le penne della coda. Viene naturale, senti quello che devi fare, l’aria stessa te lo dice… le persone sotto di me guardavano in alto e correvano via quando m’inclinavo troppo rapidamente, o mi fermavo a mezz’aria… ma per me non aveva importanza.

«Volai per più di un’ora, fino a dopo il tramonto, dopo che la gente se n’era andata. Allora ero in alto, al di sopra dei tetti. Ma i muscoli delle ali cominciavano a stancarsi e avrei fatto meglio a scendere. La discesa fu dura. Voglio dire, fu dura perché non sapevo come scendere. Caddi come un sacco di pietre, barn! Per poco non mi ruppi una caviglia e la pianta dei piedi mi bruciava come il fuoco. Se qualcuno mi avesse visto sarebbe scoppiato a ridere. Ma non m’importava neanche di questo. Era difficile stare sul terreno, odiavo essere confinato a terra. Tornai a casa zoppicando, trascinando dietro di me le ali, che laggiù non mi erano di alcuna utilità. Mi sentivo debole, mi sentivo pesante.

«Mi occorse molto tempo per arrivare a casa e mia madre arrivò poco più tardi. Mi guardò e disse. ‘Sei uscito?’

«E io: ‘Ho volato, mamma’, e lei scoppiò a piangere.

«Mi dispiaceva per lei, ma non potevo dire molto.

«Non mi chiese se volessi continuare a volare. Sapeva che l’avrei fatto. Non capisco le persone che hanno le ali ma non vogliono usarle. Suppongo che siano troppo interessati a fare carriera. O che siano innamorati di qualcuno a terra. Ma sembra… non so. Non riesco a capirlo. Voler rimanere a terra. Scegliere di non volare.

«Le persone senza ali non possono farne a meno, non è colpa loro se sono vincolate a terra. Ma se hai le ali…

«Naturalmente, possono avere paura della paralisi alare. Le ali non ti si paralizzano se non voli. E come potrebbero? Come può fermarsi una cosa che non ha mai lavorato?

«Suppongo che la sicurezza sia importante per certe persone. Hanno una famiglia, o dei doveri, o un lavoro, o qualcosa d’altro. Non saprei dire. Dovresti parlare con uno di loro. Io sono un volatore.»

Ho chiesto ad Ardiadia come si guadagnasse da vivere. Come la maggior parte dei volatori, lavorava part-time per il servizio postale. Soprattutto portava dispacci e lettere dei ministeri, con voli a lunga distanza, anche Oltreoceano. Evidentemente era considerato un dipendente dotato e attendibile. Nel caso di dispacci particolarmente importanti, mi disse, venivano sempre mandati due volatori, nel caso uno fosse colpito da paralisi alare.

Aveva trentadue anni. Gli ho chiesto se era sposato e mi disse che i volatori non si sposano mai; si consideravano, mi disse, superiori. «Relazioni sull’ala», mi spiegò, con un leggero sorriso.

Gli chiesi se quelle relazioni fossero sempre con altri volatori e mi rispose: «Ah, sì, certo», rivelando così involontariamente la sua sorpresa e il suo disgusto all’idea di fare l’amore con un non-volatore. Il suo comportamento era garbato e simpatico, era molto ben disposto, ma non riusciva a nascondere la sua certezza di essere diverso dai senza-ali, staccato da loro, e in realtà non aveva nulla a che fare con loro. Come poteva evitare di guardarci dall’alto in basso?

Io lo interrogai su quei sentimenti di superiorità ed egli cercò di spiegare.

«Quando ho detto che mi pareva di essere le mie ali, sai, intendevo proprio quello. Poter volare fa sembrare poco interessanti tutte le altre cose. Quel che la gente fa ci appare banale. Volare è completo. Ed è sufficiente. Non so se mi puoi capire. È tutto il proprio corpo, tutta la propria personalità che sale su, nell’intero cielo. In una giornata serena, alla luce del sole, con tutto il mondo che si stende sotto di te, lontano lontano… o con un forte vento, in una tempesta… sul mare, è laggiù che preferisco volare. Sul mare, in tempo di tempesta.

«Quando le barche da pesca corrono al riparo, tu l’hai tutto per te, il cielo, pieno di pioggia e di lampi, con le nubi sotto le tue ali. Una volta, al largo di Capo Emer, ho danzato con la tromba marina. Per poter volare, c’è bisogno di tutto quello che hai. Così, se cadi, vai giù tutt’intero. E sul mare, se precipiti, chi lo viene a sapere, chi assiste? Non voglio finire seppellito nella terra.»

L’idea lo fece rabbrividire un poco. Vidi il fremito nelle lunghe, pesanti penne delle ali color nero e bronzo.

Gli chiesi se le «relazioni sull’ala» portassero a volte alla nascita di figli, e lui mi rispose con indifferenza che ne nascevano, naturalmente.

Io insistetti sull’argomento, lui mi spiegò che un figlio era una grande seccatura per una madre volatrice e che di conseguenza, non appena svezzato, lo lasciavano «atterrato» — per usare le sue parole — per essere allevato da parenti. A volte la madre alata si affezionava a tal punto al bambino da rimanere atterrata anche lei per prendersene cura, ma lo disse con un leggero disprezzo.

La probabilità che i figli dei volatori sviluppino le ali è esattamente uguale a quella di ogni altro giovane; il fenomeno non ha una base genetica, ma è una patologia dello sviluppo condivisa da tutti i gy, che compare in meno di un individuo su mille.

Penso che Ardiadia non accetterebbe il termine patologia.

Ho anche parlato con un gy alato non-volatore, che mi ha lasciato prendere nota della conversazione, ma mi ha chiesto di non usare il suo nome. Appartiene a una rispettabile ditta di avvocati di una piccola città del Gy centrale.

Mi disse: «Non ho, mai volato, no. Avevo vent’anni quando mi sono sentito male. Pensavo di avere ormai superato l’età e di essere al sicuro. È stato un colpo terribile. I miei genitori avevano già fatto un mucchio di sacrifici e speso un mucchio di soldi per mandarmi all’università. E laggiù mi trovavo bene. Mi piaceva lo studio. Ero intelligente. Perdere un anno era già abbastanza brutto. Non intendevo lasciare che quella faccenda mi portasse via l’intera vita. Per me le ali sono semplici escrescenze. Impacci. Ingombri. Un impaccio che ti impedisce di camminare, di ballare, di sedere in modo civile su una sedia normale, di metterti un vestito decente.

«Mi sono rifiutato di permettere che una simile assurdità si intromettesse nella mia istruzione, nella mia vita. I volatori sono stupidi, il loro cervello se ne va tutto in penne. Non intendevo rinunciare alla mia intelligenza per il piacere di svolazzare sopra i tetti. Mi interessa maggiormente quello che succede sotto i tetti. Dello scenario non mi curo. Preferisco la gente. E volevo condurre una vita normale.

«Volevo sposarmi, avere dei figli. Mio padre era un uomo buono; è morto quando avevo sedici anni e io ho sempre pensato che se fossi potuto essere buono con i miei figli come lui lo è stato con me, sarebbe stato un modo per ringraziarlo, per rendere onore alla sua memoria.

«Ho avuto la fortuna di incontrare una donna meravigliosa che si è rifiutata di lasciarsi impressionare dal mio handicap. Anzi, non vuole che lo definisca così. Dice che questa faccenda» — e indicò le ali, con un cenno della testa — «è la prima cosa che ha notato di me. Dice che quando ci siamo conosciuti si era fatta l’idea che fossi solo un noioso e pedante giovanotto in carriera, finché non le ho mostrato la schiena».

Aveva le penne della testa nere con la cresta azzurra. Le sue ali, anche se appiattite, legate e infilate dentro la cintura, come si fa sempre con le ali dei non-volatori, in modo che non siano d’impaccio e che si notino il meno possibile, avevano uno splendido piumaggio con disegni blu scuro e azzurro pavone, e strisce verticali e bordi neri.

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