Il lavoro è bene eseguito, attento, sicuro e delicato. Il solo materiale usato è la riqimite, unita mediante incastri e tenoni come se fosse legno, o posata in blocchi e corsi squisitamente combacianti. In gran parte, le superfici interne sono lavorate fino a divenire lisce come seta, mentre quelle esterne sono levigate o scabre a seconda dell’effetto estetico che si vuole ottenere. Non ci sono sculture o decorazioni; solo qualche sottile modanatura o un filetto inciso che si ripetono e che sottolineano le forme architettoniche.
Le finestre sono reticoli di listelli di pietra incrociati, senza vetri, oppure fogli dì pietra intagliati, talmente sottili da risultare traslucidi. Il motivo rettangolare ripetuto del reticolo è elegantemente proporzionato; in molte stanze e aperture dell’Edificio, anche se non in tutte, si nota un rapporto di tre a due. Le porte sono sottili lastre di pietra così ben equilibrate e incernierate che si aprono e si chiudono con grande leggerezza e precisione. Non c’è arredamento.
Stanze vuote, passaggi vuoti, chilometri di corridoi: scale interminabili, rampe, cortili, terrazzi, torri delicate, viste illimitate di tetti dopo tetti, di torri dopo torri, di cupole dopo cupole fino all’orizzonte; sale illuminate da grandi finestre traforate o solo dalla verdastra, marmorizzata trasparenza dei sottili pannelli di pietra; corridoi che sboccano in altri corridoi, altre stanze, rampe, cortili e nuovi corridoi… È un dedalo, un labirinto? Certo, è inevitabile; ma è lo scopo per cui è stato costruito?
L’edificio è bello? Certo, a modo suo è bellissimo, meraviglioso; ma l’estetica è lo scopo per cui è stato costruito? Gli aq sono una specie razionale. Hanno un linguaggio, e la risposta a queste domande deve venire da loro.
Il lato preoccupante è che hanno molte risposte e che nessuna di esse sembra del tutto soddisfacente, né a loro né ad altri. In questo assomigliano a ogni essere razionale che compie un atto illogico e lo giustifica a posteriori con la ragione.
La guerra, per esempio. La mia specie ha molte ottime ragioni per fare la guerra, anche se nessuna di esse è altrettanto buona quanto le ragioni per non farla.
Le nostre giustificazioni maggiormente razionali e scientifiche — per esempio, quella che siamo una specie aggressiva — sono perfettamente circolari; facciamo la guerra perché facciamo la guerra. E quelle per fare una guerra in particolare (come che la nostra gente deve avere maggiore ricchezza e una maggiore quantità di territorio; o che la nostra gente deve avere più potere; o che la nostra gente deve obbedire a un Dio che ordina di schiacciare i sacrileghi infedeli) si riducono alla stessa cosa. Dobbiamo fare la guerra perché dobbiamo farla, non abbiamo scelta. In ciò non abbiamo libero arbitrio, anche se questa giustificazione non soddisfa la mente ragionevole, che desidera la libertà.
Allo stesso modo, tutti i tentativi degli aq di spiegare o giustificare il loro edificare e il loro Edificio, chiamano in causa necessità che non sembrano poi tanto necessarie e impiegano ragioni che quando fanno il giro completo ritornano allo stesso punto.
«Facciamo il Pellegrinaggio delle Pietre perché l’abbiamo sempre fatto. Andiamo nel Riqim perché la pietra migliore è laggiù. L’edificio è sull’altipiano del Mediro perché il terreno è buono e c’è abbastanza posto. L’Edificio è una grande impresa, su cui i nostri figli potranno contare e i nostri uomini e le nostre donne possono lavorarvi a fianco a fianco. Il Pellegrinaggio delle Pietre porta a unirsi persone di tutti i nostri villaggi. Eravamo solo un povero popolo disperso, nei vecchi tempi, ma adesso l’Edificio mostra quale grande visione ci sia dentro di noi…» Tutte spiegazioni sensate, ma che non convincono del tutto, non soddisfano.
Forse converrebbe rivolgere la domanda a quegli aq che non hanno mai preso parte al pellegrinaggio.
Non che abbiano qualche critica contro il viaggio. Parlano dei pellegrini come di persone che compiono qualcosa di coraggioso, difficile, meritevole e forse anche sacro.
Perciò potete chiedere: «Ma, allora, perché tu non ci sei andato?»
E vi sarà risposto: «Be’, non ne ho mai sentito la necessità; la gente ci va perché deve andarci, sente il richiamo».
E l’altra razza, i daqo? Che pensano di quella immensa struttura, che oggi è senza dubbio la più grande impresa del loro mondo, la sua più grande conquista?
I daqo non ci pensano molto, evidentemente. Anche i marinai delle barche per il trasporto della pietra non salgono mai sul Mediro e non sanno nulla dell’Edificio, a parte che sorge lassù e che è molto grande.
I daqo del continente nordoccidentale lo conoscono solo come una voce, una leggenda, o attraverso le storie dei viaggiatori sul «Palazzo del Mediro» nel Grande Continente Meridionale.
Alcune di queste leggende affermano che il re degli aq abita lassù in inconcepibile splendore; alcuni dicono che è una torre più alta delle montagne, dove vivono mostri senza occhi; altre storie/leggende, che è un labirinto dove l’incauto viaggiatore si perde per corridoi senza fine, pieni di scheletri e di spettri; altri che il vento che lo attraversa geme in lunghi accordi come una vasta arpa eolia, che si può udire a centinaia di chilometri e così via.
Per i daqo è una leggenda, come le narrazioni dei tempi andati in cui i loro possenti antenati volavano nell’aria, prosciugavano i fiumi e trasformavano le foreste in pietra e costruivano torri più alte del cielo e così via. Favole.
Di tanto in tanto, un aq che ha preso parte al Pellegrinaggio delle Pietre dirà qualcosa di diverso sull’Edificio. Se glielo chiedono, alcuni di loro rispondono: «È per i daqo».
In effetti l’edificio è meglio proporzionato per la bassa statura dei daqo che per gli alti aq. I daqo, se mai ci andassero, potrebbero attraversare i corridoi e le porte senza chinarsi. Una vecchia donna di Katas, che aveva preso parte a cinque viaggi, fu la prima a darmi quella risposta.
«L’Edificio è per i daqo?» le chiesi, sorpresa. «Ma perché?»
«Per i vecchi tempi.»
«Ma i daqo non vanno mai lassù.»
«Non è ancora finito», mi rispose lei.
«Un ringraziamento?» le chiesi, perplessa. «Una ricompensa?»
«Ne hanno bisogno», mi spiegò.
«I daqo ne hanno bisogno e voi no?»
«No», mi rispose la donna, con un sorriso. «Noi lo costruiamo. A noi non serve.»
Gli abitanti di Gy hanno un aspetto non molto diverso da quello degli uomini del nostro piano, a parte il fatto che hanno le piume e non il pelo. Il fine velo di piumino sulla testa dei neonati diviene una corta, soffice «capigliatura» di piuma dalle macchie caratteristiche nei piccoli in grado di provvedere a se stessi; nell’adolescenza diventa una completa testa di piume. Molti uomini hanno un colletto di penne dietro il collo, corte piume su tutta la testa e una cresta alta, erettile, nel centro. Il piumaggio della testa dei maschi è castano o nero, a volte con strisce o macchie color bronzo, rosso, verde e azzurro. Le penne delle donne in genere diventano molto lunghe, a volte scendono lungo la schiena fin quasi al pavimento e hanno margini soffici, ondulati e penduli, un po’ come la coda dello struzzo; quanto ai colori delle penne femminili, sono molto vivaci: viola, scarlatto, turchese, oro. Gli uomini e le donne di Gy hanno un corto piumino nella regione del pube e nell’incavo dell’ascella e spesso un finissimo piumaggio copre loro l’intero corpo. Individui come loro, con le piume del corpo vivacemente colorate, sono belli a vedersi quando sono nudi, ma soffrono molto i pidocchi e le zecche.
La muta è un processo continuo e non stagionale. Quando le persone invecchiano, non tutte le penne che sono cadute ricrescono e le macchie di calvizie sono comuni sia tra gli uomini sia tra le donne di più di quarant’anni. Molte persone, perciò, mettono da parte le migliori penne della testa quando le cambiano per farsi all’occorrenza parrucche o false creste; coloro che hanno poche penne o le hanno di colore poco elegante, possono comprare parrucche di piuma in botteghe speciali. A volte si diffonde la moda di schiarire le penne, di arricciarle o di spruzzarle di polvere dorata. In città, nel salone del parrucchiere si schiariscono, tingono, indorano o arricciano le penne dei clienti e si vendono acconciature alla moda del giorno. Le donne povere, con penne della testa particolarmente splendide, molte volte le vendono ai negozi di parrucche e ne traggono un buon guadagno.
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