Il pellegrinaggio stesso richiede parecchie settimane. La parte pericolosa è il viaggio verso il nord, che si svolge all’inizio dell’anno in modo che il ritorno, quando si riporta a casa il carico, si possa svolgere nel periodo migliore. Di tanto in tanto, qualche barca o un’intera flotta vanno perse nelle forti tempeste tropicali di quel grande oceano.
Non appena sbarcano sulle rive rocciose del Riqim, gli aq si mettono al lavoro. Sotto la direzione di viaggiatori delle pietre più esperti che hanno già compiuto altre volte il pellegrinaggio, i novizi rizzano le tende a cupola, vi immagazzinano le scarse provviste, raccolgono gli attrezzi lasciati dall’ultimo gruppo di pellegrini e risalgono i ripidi pendii verdi che portano alle cave.
La riqimite è una pietra di colore verde chiaro, liscia, a grana fine, con la tendenza a sfaldarsi lungo un piano. La si può segare sotto forma di blocchi o spaccare in lastre, piastrelle e persino fogli talmente sottili che la luce li attraversa. Anche se relativamente leggera, è pur sempre una pietra e una barca a vela di canne e tela catramata, lunga dieci metri, non ne può portare grandi moli; perciò i pellegrini valutano con attenzione la quantità estratta. Sbozzano la pietra a Riqim e cominciano laggiù a lavorarla, in modo che lo spazio sulle barche non sia sprecato. Lavorano, in fretta perché vogliono ripartire nella stagione calma, verso il solstizio. Quando hanno terminato il lavoro alzano una bandiera su un alto palo per segnalare la cosa alla flotta daqo, che nei giorni successivi viene a prelevarli, una barca alla volta. Portano a bordo la pietra, la collocano sotto i barili di pesce salato e fanno nuovamente vela verso il sud.
Le barche toccano terra in un porto o l’altro dei daqo, soprattutto quello da cui proviene l’equipaggio, per scaricare e vendere, il pesce, poi tutte risalgono la costa per parecchie centinaia di chilometri fino a Gazt, un porto molto lungo, dall’acqua bassa, nei torridi acquitrini a sud del paese dei canneti. Laggiù i marinai aiutano gli Aq a scaricare la pietra. Non ricevono pagamento per quella parte del viaggio e non ne traggono alcun profitto.
Chiesi a una donna capitano che aveva «fatto la rotta delle pietre» parecchie volte, perché lei e i suoi marinai accettassero di portare fino a Gazt i pellegrini e le loro pietre. Lei si strinse nelle spalle. «Fa parte dell’accordo», mi disse. Evidentemente non aveva pensato granché alla cosa. Dopo avere riflettuto, aggiunse: «Sarebbe un lavoraccio, trascinare quella pietra per tutta la distesa delle paludi».
Prima ancora che le barche dei daqo siano uscite dall’imboccatura del porto, gli aq cominciano a caricare la pietra su carretti lasciati sui moli dai pellegrini dell’anno precedente.
Poi si legano le cinghie attorno al petto e trainano quei carri per cinquecento chilometri nell’entroterra, superando un dislivello di tremila metri.
Non percorrono più di tre o quattro chilometri al giorno. Si accampano prima di sera e si allontanano a ventaglio dal sentiero per raccogliere vegetali commestibili e tendere trappole per gli hikiqi, dato che ormai le loro scorte si stanno esaurendo.
Tra tutti i sentieri che si snodano sulle montagne, il convoglio dei carri segue quello che è stato usato meno di recente, perché laggiù la caccia e la raccolta saranno migliori.
Durante il viaggio per mare e nel Riqim, la disposizione d’animo dei pellegrini tende a essere solenne e tesa. Non sono abituati a viaggiare per mare, il lavoro alla cava è duro ed esigente. Anche trainare i carri servendosi di cinghie legate attorno al petto non è un lavoro leggero, ma i pellegrini lo affrontano con allegria; parlano e scherzano tra loro mentre tirano i carretti, condividono il cibo e siedono tutti insieme intorno al fuoco da campo, per parlare fino a tardi, e si comportano come ogni gruppo di persone che affronta volontariamente un difficoltoso lavoro comune.
Discutono quale sentiero prendere, si insegnano il modo di riparare le ruote, e così via. Ma quando sono andato con loro non li ho mai sentiti parlare delle cose più importanti, come il compito che si erano assunti, la meta del loro viaggio.
Tutti i sentieri devono infine superare il pendio che porta all’altipiano. Quando i pellegrini arrivano in cima, dopo quell’ultima terribile salita, si fermano e guardano a sud-est. Uno dopo l’altro, i carretti lunghi e piatti, carichi di pietre impolverate, salgono fino in cima, sobbalzando e dondolando sulle asperità, e si fermano. Senza sciogliersi dalle cinghie, i pellegrini guardano in silenzio l’Edificio.
Dopo centinaia di anni di lento recupero dell’ecosistema distrutto, un numero sufficiente di Aq ebbe abbastanza cibo per trovare energia da dedicare ad altre attività, oltre a quella di raccogliere il cibo e conservarlo. Fu allora, quando la pura sopravvivenza era ancora aleatoria, che ebbe inizio il Pellegrinaggio delle Pietre.
Erano così pochi di numero, in un mondo così ostile, con un’atmosfera danneggiata, con i grandi cicli della vita non ancora ristabiliti negli oceani avvelenati e impoveriti. La terra era piena di ossa, di rovine, di foreste morte, di deserti di sale, di sabbia, di veleni chimici… come può essere venuto in mente, agli abitanti di un mondo del genere, di intraprendere un simile lavoro? Come sapevano che la pietra da loro cercata si trovava a Riqim? Come sapevano dove fosse Riqim? Che all’inizio arrivassero là in qualche modo, senza bisogno delle barche e dei navigatori Daqo?
Le origini del Pellegrinaggio delle Pietre sono assolutamente misteriose, ma non meno misteriose del loro oggetto. Sappiamo solo che ogni pietra dell’Edificio viene dalle cave di Riqim e che gli aq lo costruiscono da più di tremila, forse quattromila anni.
È immenso, naturalmente, copre molti ettari e contiene migliaia di stanze, passaggi e cortili. È certamente uno dei più grandi edifici, forse il più grande, su tutti i mondi conosciuti. Eppure le descrizioni della sua dimensione, i conteggi e le misure, i paragoni e i superlativi non hanno significato.
Il fatto è che con una tecnologia come quella della Terra contemporanea, o dell’antica Daqo, si potrebbe costruire in dieci anni un edificio dieci volte più grande.
È possibile che la vastità dell’Edificio in continua crescita sia la metafora o l’illustrazione di una simile enormità reale.
Oppure la dimensione dell’edificio può essere puramente un effetto della sua età. Le parti più vecchie, ormai molto lontane, delle sue pareti esterne, non mostrano alcuna indicazione che fossero viste — o che non lo fossero — come l’inizio di qualcosa di immenso. Sono fatte esattamente come le «case» dei bambini aq, ma su una scala più grande.
Tutto il resto dell’Edificio è stato aggiunto a quel modesto inizio, più o meno nello stesso stile, anno dopo anno. Dopo forse qualche secolo, i costruttori hanno cominciato ad aggiungere piani sul tetto piatto dell’Edificio originale, ma non hanno mai superato i quattro piani, a parte le torri e i pinnacoli e le grandi cupole a botte che raggiungono l’altezza di una sessantina di metri.
Inevitabilmente l’Edificio ha continuato a crescere ai lati, verso l’esterno, grazie a padiglioni, ali e portici e cortili tutti uniti tra loro, e ormai copre un’area così vasta che da lontano sembra un terreno fantastico, un basso paesaggio montano tutto di pietra verde-argento.
Anche se non è una costruzione nana come le strutture dei bambini, l’Edificio, curiosamente, non è in scala del tutto corretta, se si adotta come unità di misura l’altezza media degli aq. Il soffitto è appena alto a sufficienza per permettere loro di stare in piedi; per passare attraverso le porte devono piegare la schiena.
Nessuna parte dell’Edificio è in rovina, o ha bisogno di manutenzione, anche se l’altipiano del Mediro è scosso occasionalmente da qualche terremoto. Le aree danneggiate sono riparate l’anno successivo, oppure si recupera la loro pietra per effettuare una ricostruzione.
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