Una parola nel nostro linguaggio è qualcosa di reale, un suono con una forma fissa. Prendi «gatto». In una frase, o da solo, ha un significato. Un certo tipo di animale. Per riferirti a un gatto, nel parlare usi sempre quegli stessi fonemi e, scrivendo, usi quelle lettere. La parola «gatto» è diversa da ogni altra parola. Come un gatto è diverso da ogni altro animale. «Gatto» è un nome, i verbi sono un po’ più vaghi. Cosa significa, se dici il verbo «aveva», da solo? Non molto. «Aveva» non è come «gatto»: ha bisogno di un contesto, un soggetto e un complemento oggetto.
Nel Nna Mmoy non ci sono parole come «gatto». Ogni parola è come «aveva», ma di più, molto di più.
Prendiamo la sillaba dde. Non ha ancora un significato. A no dde mü as significa più o meno: «Andiamo nel bosco» e in quel contesto dde significa «bosco». Ma Dim a dde mü as significa più o meno: «L’albero sorge accanto alla strada»; qui dde è un albero, a diventa «strada» invece di significare «andiamo» come nella frase precedente, e as significa «accanto» invece «dell’in» di moto a luogo. Ma se lo stesso gruppo di connotativi comparisse all’interno di altri gruppi, cambierebbe ancora. Hse vuy u no a dde mü as med as hro se se: «I viaggiatori sono giunti dal deserto dove non cresce nulla». Adesso dde significa «deserto» e non «albero». E in O be k’a dde k’a la sillaba dde significa «generoso, che dona liberamente», e non riguarda affatto gli alberi, se non metaforicamente. La frase significa, più o meno «ti ringrazio».
Il campo dei significati di una sillaba non è infinito, naturalmente, ma non credo che si possa fare un elenco dei significati possibili o potenziali, neppure un elenco lungo, come la «voce» relativa a una sillaba nei dizionari cinesi. Una sillaba del cinese parlato, hsing o lung, può avere decine di significati; ma è pur sempre una parola, anche se il suo significato dipende in una certa misura dal contesto e anche se occorrono cinquanta diversi caratteri scritti per esprimere i diversi significati. Ciascun diverso significato della sillaba è difatti una parola diversa, un’entità, un sasso nel grande alveo del linguaggio.
A una sillaba del Nna Mmoy corrisponde un solo carattere scritto. Ma non è un sasso. È una goccia nel fiume.
Imparare il Nna Mmoy è come imparare a tessere l’acqua.
Credo sia altrettanto difficoltoso per i Nna Mmoy imparare la propria lingua quanto per noi imparare la loro. Ma, se è solo per questo, hanno tempo a sufficienza, perciò la cosa non ha importanza. La loro vita non inizia qui e corre là, come cavalli su una pista da corsa. Vivono nel punto centrale del tempo, come una stella di mare nel proprio centro. Come il sole nella propria luce.
Quel poco che so della lingua — e non sono realmente certo di nulla, nonostante la mia dotta disquisizione sul dde - l’ho imparato soprattutto dai bambini. Le parole dei loro bambini sono maggiormente simili alle nostre, ti puoi aspettare che significhino la stessa cosa anche all’interno di frasi diverse. Ma i bambini continuano a studiare e quando imparano a leggere e scrivere, a dieci anni circa, iniziano a parlare come gli adulti.
Quando parlavo con gli adolescenti non riuscivo a capire molto di quello che dicevano, a meno che non parlassero con me come si parla con i bambini. Come in genere facevano. Imparare a leggere e scrivere è un’occupazione che dura tutta la vita: sospetto che comprenda non solo l’apprendimento dei caratteri, ma anche l’invenzione di nuovi, e di nuove loro combinazioni, nuove e belle forme di significato.
Sono giardinieri. Laggiù le cose crescono quasi da sole, non c’è bisogno di diserbare, non ci sono erbacce, non c’è da dare insetticidi, non ci sono parassiti. Comunque, sai anche tu com’è, in un giardino c’è sempre qualcosa da fare. Nel villaggio dove abitavo c’era sempre qualcuno che lavorava in giardino o tra gli alberi. Nessuno si rovinava la salute per lavorare troppo, comunque. Poi si raccoglievano tutti sotto qualche albero, nel pomeriggio, e parlavano e ridevano nel corso di una delle loro tipiche, lunghe conversazioni.
Spesso la conversazione terminava quando alcune persone si mettevano a recitare, o qualcuno apriva un foglio di carta o un libro e leggeva qualcosa. A quel punto alcuni si erano già allontanati per leggere da soli o per scrivere.
Ogni giorno molte persone scrivevano — molto lentamente, certo — sui fogli sottilissimi che producono dalla pianta del cotone. A volte portano quegli scritti agli altri del gruppo, nel pomeriggio, e li passano in giro; gli altri li leggono a voce alta. Altre persone vanno nella bottega del villaggio a lavorare su un gioiello: braccialetti e spille e complicate collane, fatte di filo d’oro, opale, ametista e simili. Quando sono finiti mostrano in giro anch’essi, li danno a qualcuno che poi li passa ad altri; nessuno li tiene a lungo.
Nel villaggio girava un po’ di denaro-conchiglia e a volte, se qualcuno ne vinceva un mucchietto giocando a «dieci» con le tessere, offriva al proprietario di un bel gioiello un paio di conchiglie per averlo, di solito accompagnando l’offerta con un mucchio di risate e di quelli che mi sembravano insulti rituali.
Alcuni di quei gioielli sono bellissimi, delicati bracciali fatti di infiniti ghirigori di filigrana d’oro, grosse e pesanti collane a forma di esplosione stellare o di spirali e incatenate tra loro. Varie volte me ne venne regalata una. Fu allora che imparai a dire o be k’a dde k’a. Io la portavo per qualche tempo, poi la passavo ad altri. Anche se avrei voluto tenerla.
Alla fine ho capito che alcuni di quei gioielli erano frasi, o versi di poesie. Forse lo erano tutti.
La scuola del villaggio si trovava sotto un noce. Il clima è molto temperato e privo di variazioni, perciò si può vivere tutto il giorno all’esterno. Nessuno aveva nulla da dire, se mi sedevo con i bambini e ascoltavo. I bambini si riunivano sotto quell’albero tutti i giorni per giocare, e infine l’uno o l’altro degli abitanti del villaggio arrivava e insegnava loro una cosa o l’altra. La maggior parte delle volte si trattava di esercitazioni di lingua, attraverso qualche racconto. L’insegnante iniziava una trama e un bambino la continuava in un certo modo, poi un altro subentrava, e così via, tutti ascoltavano con grande attenzione, pronti a intervenire.
L’argomento era sempre qualcosa che riguardava le attività del villaggio, questioni noiose, ma c’erano sorprese e battute, e un uso inatteso e inventivo di una parola o di un collegamento suscitava soddisfazione e lodi: «Un gioiello!» dicevano tutti.
Di tanto in tanto arrivava un insegnante regolare che faceva il giro dei villaggi e si fermava per un giorno, due o tre, per insegnare a leggere e scrivere. Anche gli adolescenti e qualche adulto venivano a sentire l’insegnante, insieme ai bambini. È così che ho imparato a leggere i caratteri di alcuni testi.
Gli abitanti del villaggio non mi hanno mai chiesto di me o da dove venissi. Non avevano alcuna curiosità di quel tipo. Erano gentili, pazienti, generosi, condividevano con me il cibo. Mi avevano dato una casa, mi lasciavano lavorare con loro, ma non avevano alcuna curiosità nei miei riguardi. O nei riguardi di qualsiasi altra cosa, a quanto vedevo, a parte le loro occupazioni quotidiane: giardinaggio, preparazione del cibo, fabbricazione dei gioielli, scrivere, conversare, ma conversare unicamente tra loro.
Come tutti coloro che mi hanno preceduto, ho incontrato tali difficoltà ad apprendere la loro lingua da dar loro probabilmente l’impressione di essere ritardato. Effettuai i soliti tentativi di imparare la lingua attraverso lo scambio di parole — ti colpisci il petto e dici il tuo nome, poi guardi con aria interrogativa la persona che ti sta davanti, oppure mostri una foglia e dici «foglia» e guardi speranzosamente la persona che hai di fronte -ma, semplicemente, non mi rispondevano. Neppure i bambini.
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