Tutte le specie di Qoq, a parte qualche parassita e gli insuperabili e indifferenti batteri, soffrirono gravemente gli effetti della EEPT dei daqo. Nell’ecocatastrofe finale, la popolazione daqo si ridusse di quattro miliardi in soli quarant’anni. La specie è sopravvissuta; oggi vive in tono modesto, è assai ridotta come popolazione e bada più alla sopravvivenza che al dominio.
Quanto agli aq, probabilmente ben pochi, forse solo qualche centinaio, sono sopravvissuti alla rapida e definitiva distruzione della rete ecologica planetaria.
La derivazione da quel ridotto ceppo genetico potrebbe spiegare la prevalenza di certe caratteristiche presso gli aq, ma resta inesplicabile l’uniformità dell’espressione culturale di quelle tendenze. Non sappiamo bene come fossero prima del crollo dei daqo, ma il loro presunto rifiuto di eseguire gli ordini dell’altra specie suggerisce che stessero già lavorando, per così dire, in base a ordini propri.
Ci sono oggi circa due milioni di daqo, soprattutto sulle coste dei continenti del Sud e del Nord-ovest. Abitano in piccole città o in fattorie e praticano lavori agricoli e commercio; la loro tecnologia è efficiente ma modesta, limitata sia dall’esaurimento delle risorse del loro mondo, sia da rigorosi divieti religiosi.
Ci sono probabilmente quindicimila o ventimila aq, tutti sul continente meridionale. Vivono come pescatori e raccoglitori, con qualche attività agricola, limitata e senza precisi programmi. L’unico loro animale domestico sopravvissuto alle decimazioni è il boos, una creatura intelligente che deriva da carnivori i quali cacciavano in branco. Gli aq li usavano per la caccia quando c’erano ancora animali da cacciare. Dal crollo dei daqo usano i boos per portare — o trainare — piccoli pesi, come compagnia e come cibo nei momenti peggiori.
I villaggi aq sono mobili. Fin da tempi immemorabili le loro case sono cupole di tela tese su un’armatura di pali leggeri o di canne, facili da montare, smontare e trasportare. Le alte canne, che crescono nelle oasi del deserto e lungo l’intera costa della zona equatoriale del continente Sud, sono la loro principale risorsa; gli aq raccolgono i germogli come cibo, filano e tessono la fibra per farsi gli abiti, usano i fusti per fare corde, cestini e attrezzi. Quando hanno esaurito tutte le canne di una regione, smontano il villaggio e si trasferiscono. In pochi anni le canne si rigenerano dalla radice.
Gli aq sono rimasti in prevalenza nella regione dei deserti e dei canneti in cui li hanno relegati i daqo nei precedenti millenni. Alcuni però si accampano all’esterno delle cittadine daqo e intrattengono con loro rapporti: un po’ di baratto e di piccole ruberie. I daqo prendono da loro i bei tessuti e i cestini, e sopportano con sorprendente pazienza i furtarelli.
In effetti l’atteggiamento dei daqo nei confronti degli aq è difficile da definire. Una sua parte è costituita dalla cautela: una sorta di inquietudine che non è sospetto o sfiducia; un’attenzione che, sorprendentemente, non arriva mai all’animosità o al disprezzo e che può anche risultare conciliante.
È ancor più difficile dire quel che gli aq pensano dei daqo. Le due comunità si parlano con un pidgin o lingua franca contenente elementi di tutt’e due le lingue, ma pare che nessun individuo impari mai la lingua dell’altra specie. Le due comunità sembrano essere giunte a una coesistenza senza rapporti. Non hanno legami, a parte quei contatti sporadici e leggermente abrasivi ai margini dei villaggi daqo del Sud e una limitata, strana collaborazione che riguarda quella che posso solo chiamare l’ossessione specifica degli aq.
Il termine «ossessione specifica» mi piace poco, ma «istinto culturale» è peggio.
Quando hanno circa due anni e mezzo o tre, i bambini degli aq iniziano a costruire. Qualunque cosa giunga nelle loro manine verde-bronzo e possa servire come blocco o mattone viene messo in pila e utilizzato per costruire una «casa». Gli aq usano la stessa parola per quelle strutture in miniatura e per le fragili cupole di canne e tela in cui abitano, ma non c’è alcuna somiglianza, a parte il fatto che tutt’e due sono volumi coperti da un tetto e chiusi da una porta.
Le «case» dei bambini sono rettangolari, hanno il tetto piatto e sono sempre fatte di materiali robusti e pesanti. Non sono imitazioni delle case dei daqo, o lo sono solo alla lontana, dato che la maggior parte di quei bambini non sono mai stati in una città daqo e non hanno mai visto un edificio dei daqo.
È difficile credere che si imitino l’un l’altro con una tale unanimità da non cambiare mai il progetto, ma è ancora più difficile credere che il loro stile di costruzione sia innato, come quello degli insetti. Diventando adulti e più abili, i bambini costruiscono case sempre più grandi, anche se non superano mai l’altezza del ginocchio, con passaggi, cortili e a volte anche torri.
Molti bambini trascorrono tutto il tempo libero raccogliendo pietre o facendo mattoni di fango per costruire «case». Non riempiono queste costruzioni di animali o persone-giocattolo e non raccontano storie su di esse. Si limitano a costruirle, con un piacere e una soddisfazione evidenti.
Verso i sei o sette anni alcuni bambini smettono di giocare alla costruzione, ma altri continuano a lavorarvi, insieme con altri bambini, spesso sotto la guida di adulti interessati, fino a costruire «case» di notevole complessità, anche se non grandi a sufficienza perché qualcuno vi abiti. I bambini non giocano al loro interno.
Quando il villaggio smonta le cupole e passa a un nuovo luogo di raccolta o a un nuovo canneto, questi bambini si lasciano alle spalle le costruzioni senza rimpianti. Non appena giunti nella nuova residenza ricominciano a costruire, spesso recuperando pietre o mattoni dalle case lasciate sul luogo da una precedente generazione. I luoghi di raccolta più frequentati sono contrassegnati da decine o centinaia di rovine in miniatura, di solida fattura, popolati solo da un anfibio, il pioto di palude, e dal piccolo hikiqi del deserto, simile a un topo.
Nessuna rovina del genere è stata trovata nelle aree dove gli aq vivevano prima della conquista daqo. Evidentemente, la loro propensione a costruire era meno forte, o non esisteva, prima della conquista o prima del crollo dei daqo.
Due o tre anni dopo le loro cerimonie dell’adolescenza, alcuni dei giovani, coloro che hanno continuato a costruire «case» fino alla pubertà, partono per il loro primo Pellegrinaggio delle Pietre.
La partenza per il Pellegrinaggio delle Pietre avviene una volta l’anno dai territori degli aq. Il viaggio completo occupa da due a tre anni, poi il viaggiatore ritorna al proprio villaggio natale per cinque o sei anni. Alcuni aq non partono mai per il pellegrinaggio, alcuni vi prendono parte più volte nel corso della loro vita.
Il tragitto del pellegrinaggio giunge fino alla costa di Riqim, sul continente nordoccidentale, e poi il ritorno è al Mediro, un altipiano roccioso assai all’interno rispetto ai canneti più a sud del grande continente meridionale.
Gli aq che fanno il pellegrinaggio si radunano in primavera: partono dai loro vari villaggi e arrivano per via terra o su zattere di canna a Gatbam, un piccolo porto nei pressi dell’equatore, sulla costa occidentale. Laggiù una flotta di barche di canna e tela cerata li attende. Marinai e piloti sono tutti daqo del continente meridionale, sono marinai di professione, soprattutto pescatori; alcuni di loro «fanno la rotta delle pietre» ogni anno, per decenni. I pellegrini aq non hanno nulla con cui pagarli; arrivano con le provviste per il viaggio ma niente altro.
Quando sono a Riqim, i marinai daqo pescano con la rete e salano i pesci di quelle acque particolarmente ricche; un’attività che rende il loro viaggio particolarmente vantaggioso. Ma non vanno mai a pescare laggiù, se non quando viene organizzata la flotta per il Pellegrinaggio delle Pietre.
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