A quanto posso dire, un Nna Mmoy non ha un nome. Si rivolgono l’uno all’altro con frasi sempre variabili che sembrano significare rapporti sia permanenti sia temporanei di consanguineità, di responsabilità e dipendenza, di stato contingente, di mille altri collegamenti sociali ed emotivi. Io potevo mostrare me stesso e dire «Laure», ma che relazione poteva indicare?
Sospetto che ascoltassero la mia lingua come il farfugliare di un idiota.
Nessun altro nel loro mondo parla; nessun altro è senziente, tanto meno intelligente. Nel loro mondo c’è un solo linguaggio. Hanno riconosciuto in me un essere umano, ma uno con deficienze, dato che non sapevo parlare. Non riuscivo a instaurare un collegamento con loro.
Avevo con me una rivista, una pubblicazione di un’organizzazione americana per la protezione della natura, che leggevo all’aeroporto. Un giorno la tirai fuori e la porsi al gruppo di conversazione. Nessuno mi fece domande sul testo né lo guardò con interesse. Sono certo che non l’hanno riconosciuta come scrittura — un paio di dozzine di caratteri neri, ripetuti interminabilmente in linea retta — nulla che assomigliasse sia pur lontanamente ai loro meravigliosi arabeschi, alle foglie di felce e ai disegni sovrapposti e incatenati. Ma guardarono le fotografie. La rivista era piena di fotocolor di animali, specie in pericolo. I coralli e i pesci delle barriere coralline, le pantere della Florida, i lamantini, i condor della California. La rivista passò da un abitante del villaggio all’altro e anche le persone degli altri villaggi chiedevano di vederla, quando venivano in visita per conversare e fare baratti.
La mostrarono all’insegnante, una donna, quando tornò nel corso del suo giro, e lei mi fece domande sulle fotografie, la sola volta che un Nna Mmoy mi fece una domanda. Penso che la sua domanda fosse: «Chi sono queste persone?»
Nel loro mondo, devi sapere, non ci sono animali a eccezione degli abitanti. A parte piccole e innocue mosche o farfalle, che servono a impollinare le piante o a eliminare i corpi morti. Tutti i vegetali sono commestibili. L’erba è un cereale nutriente. Ci sono cinque generi di alberi, e tutti danno frutti o noci. Un solo tipo di sempreverde, usato per la legna, che fa anch’esso noci commestibili. Un solo cespuglio — onnipresente — un arbusto di cotone che produce fibra da filare, radici commestibili, foglie utilizzate per il tè. A parte gli indispensabili batteri, nel mondo non ci sono più di venti o trenta specie tra gli animali e le piante. E tutti, batteri compresi, sono «utili» e «innocui» per gli esseri umani.
La vita laggiù è un prodotto dell’ingegneria genetica. Deriva da un progetto. È davvero un’utopia. Tutto quello di cui gli esseri umani hanno bisogno e nulla d’inutile. Pantere, condor, lamantini… a che servono? La Guida planaria di Roman dice che i Nna Mmoy sono «i resti degenerati di una grande e antica cultura». Rornan vede le cose al contrario.
Quel che è degenerato, sul loro piano, è la rete della vita. La «grande e antica cultura» ha preso un tessuto vasto, ricco, complesso in modo incalcolabile, simile a quello della vita che riveste il nostro mondo, e lo ha ridotto a un frammento miserabile.
Sono certa che questa terribile povertà risalga all’epoca delle rovine. I loro antenati, con tutte le risorse della scienza e le migliori intenzioni, li hanno derubati di ogni cosa.
«Il nostro mondo è pieno di malattie, nemici, rifiuti e pericoli», si saranno detti quegli antenati, «microbi ostili e virus che ci infettano, erbacce velenose che crescono rigogliose attorno a noi mentre noi moriamo di fame, inutili animali che portano malattie e veleni e che competono con noi per il cibo e l’acqua. Questo mondo è troppo duro perché ci vivano gli esseri umani, troppo duro per i nostri figli», si saranno detti, «ma noi sappiamo come renderlo più dolce.»
E così hanno fatto. Hanno eliminato tutto quel che non era utile. Hanno preso uno schema grande e complesso e l’hanno semplificato alla perfezione. Una stanza dell’asilo nido, dove i loro figli potevano stare al sicuro. Un parco tematico, dove la gente non ha nulla da fare, tranne divertirsi.
Ma i Nna Mmoy hanno battuto in astuzia i loro antenati, almeno in parte. Hanno trasformato nuovamente il disegno in qualcosa di infinitamente complicato, infinitamente ricco, e privo di qualunque impiego razionale. L’hanno fatto con le parole.
Non hanno alcuna arte della rappresentazione, decorano con la loro bellissima scrittura — e solo con essa — i loro vasi e tutto ciò che producono. L’unico modo con cui imitano il mondo consiste nel mettere insieme parole, ossia lasciando che le parole interagiscano tra loro in una complessità fertile, sempre diversa, per formare figure e schemi che non sono mai esistiti prima, bellissime forme che durano per breve tempo e creano altre forme a cui lasciano il passo.
Il loro linguaggio è la loro ecologia, esuberante e infinitamente proliferante. Tutta la giungla che hanno, tutta la natura selvaggia, è la loro poesia.
Come ho detto, le fotografie della mia rivista sono risultate interessantissime per loro: le foto di animali. Le hanno guardate con quello che mi pareva desiderio e incomprensione. Io dissi loro i nomi, e mentre li pronunciavo indicavo la parola scritta. Ed essi ripetevano: Pan dhedh. Kon dodh. La ma tino.
Sono le sole parole della mia lingua che abbiano mai ascoltato, a cui abbiano riconosciuto un significato.
Suppongo che da quelle parole abbiano capito quanto ho capito io dalle parole che ho appreso del loro linguaggio: ben poco, e probabilmente sbagliato.
A volte mi recavo nelle antiche rovine vicino al villaggio. Una volta trovai un muro che era venuto alla luce quando un abitante del villaggio aveva usato il luogo come cava di pietre. Cera un bassorilievo, consumato dal tempo, e quando lo studiai, pian piano capii che cosa fosse. Una processione di persone, e nella processione c’erano anche altre creature. Era difficile capire che cosa fossero. Animali, senza dubbio. Alcuni avevano quattro zampe, uno aveva grandi corna, o forse ali. Può darsi che fossero animali veri, o immaginari, o divinità in forma di animale. Cercai di interrogare l’insegnante, ma lei si limitò a rispondere: «Nen, nen».
Dall’inedito Viaggio a Qoq, Rehik e Djg di Thomas Atall, per gentile concessione dell’autore.
Il piano di Qoq è inconsueto per il fatto di avere due specie razionali (o più o meno razionali).
I daqo sono umanoidi robusti dalla pelle verde-marrone. Gli aq sono più alti e un po’ più verde-bronzo dei daqo. Le due specie, anche se discendono da un comune antenato scimmiesco, non danno ibridi fertili.
Un po’ più di quattromila anni fa, i daqo hanno conosciuto quello che l’Enciclopedia planaria chiama un EEPT, periodo di espansione esplosiva di popolazione e tecnologia.
Prima di allora, le due specie erano raramente venute in contatto. Gli aq abitavano nel continente meridionale, i daqo in quello settentrionale. La popolazione dei daqo era aumentata esponenzialmente e si era diffusa sulle tre masse continentali dell’emisfero settentrionale e poi su quello meridionale. E mentre conquistavano il loro mondo, accidentalmente conquistarono anche gli aq.
I daqo cercarono di servirsi degli aq come schiavi nei lavori domestici e nelle fabbriche, ma non ne furono in grado. Pare che gli aq, anche se non erano aggressivi, non prendessero ordini.
Nel periodo culminante dell’EEPT e nel nome del progresso, le nazioni daqo più espansionistiche seguirono una politica di sterminio degli aq «primitivi» e «incapaci di apprendere». Coloro che si insediarono nella zona equatoriale spinsero la rimanente popolazione aq ancora più a sud, nei deserti e nei canneti della costa, a malapena abitabili.
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